giovedì 2 marzo 2023

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I)

 Capitolo V

Nei sotterranei erano le Sale Operatorie. La sua barella fu lasciata in un grande salone disadorno. Di lato a lei, un poco discosta, c'era un'altra barella in attesa di entrare in Sala Operatoria. Elena provò a sbirciare la donna anziana che era come lei in attesa e la vide assorta e insieme assente: Elena pensò all'ansia e paura, che erano anche sue. 

"Si sente ormai rassegnata come un animale che va al macello." Pensò Elena interpretando la sua espressione assente. Un uomo con camice e cappello-fazzoletto calzato in testa, divisa da Sala Chirurgica, uscì da una porta a vetri diversa da quella dove era entrata la sua barella e si avvicinò a lei: "Sono il suo Anestesista."  Si presentò. Le fece alcune domande di tipo medico e si congedò dopo averla rassicurata che tutto sarebbe andato bene. Il resto si svolse per tappe successive in cui lei era ormai un oggetto rassegnato ed inerme.

La Sala Operatoria era un luogo freddo, metallico, superilluminato, in cui figure professionali diverse compivano gesti precisi, ripetitivi e perfetti. Poi fu il buio.

Si risvegliò. E già questo era un successo. Era in una sala piena di monitor, di luci innaturali, senza finestre che facessero intravedere la luce naturale. Tutto era azzurro scuro. Due infermieri, un giovane ed una donna, la lavavano con dei guanti, era nuda e piena di fili. Aveva dolore ma i due addetti a quel compito non se ne preoccupavano, maneggiando il suo corpo ferito con perizia crudele. Quella doveva essere la Terapia intensiva. La passarono quasi subito alla Subintensiva: un grande stanzone dove uomini e donne erano in letti pieni di fili e di monitor, coperti solo di un camice aperto dietro. Alcuni già si alzavano camminando piano per andare in bagno e il camice aperto dietro, tenuto solo da un laccio intorno al collo annodato dietro di esso, lasciava intravedere il sedere. Questa promiscuità sembrò orribile ad Elena. Ma capì che lì si combatteva per restare vivi, essendo tutti in una situazione clinica estrema, dove il pudore ed altri aspetti legati alla formazione culturale non erano più contemplati...

Il dolore, la fatica ad emettere il catarro che si formava nei bronchi  per la stasi, furono i ricordi di quei giorni. Un esercito di infermiere giovanissime si occupava della Subintensiva. Una si chinò sul suo corpo disteso suggerendole di tenersi stretto con le braccia il busto quando tossiva per emettere il catarro, così da proteggere lo sterno che era stato tagliato e ricucito.

Un'altra, con modi sicuri e senza cedimenti alla pietà, la costrinse a scendere dal letto alla sedia per bere il suo primo tè. Era alta, bella e con due grandi occhi scuri. La sua fermezza  professionale si imponeva sulla sua insicurezza e paura. Dopo un giorno o due le mise davanti un carrello e la fece alzare dalla sedia per andare in bagno a lavarsi. Lì le dette dei guanti impregnati di un liquido per lavarsi. Le chiese se ce la faceva da sola. Elena coraggiosamente disse di sì.

Il suo coraggio non c'era sempre. In alcuni momenti in cui l'avevano mossa per esigenze di cura, con tutti i fili a cui era attaccato il suo corpo, aveva emesso dei gemiti di dolore e detto: "Meglio morire!" Questo aveva attirato la dolorosa attenzione di un uomo dall'apparente età di sessanta anni, il quale cercava di reagire all'intervento di cardiochirurgia che aveva subito, e la prostrazione di Elena non gli giovava. 

Anche in Subintensiva erano consentite visite. Suo marito nel vederla in quello stato riportava sul viso tutto il suo dolore smarrito e quasi piangeva. L'uomo dall'apparente età di sessanta anni aveva ricevuto la visita di una donna anziana, con gli occhi pesantemente cerchiati di nero: Elena pensò che avesse qualche strana malattia perché non aveva mai visto occhiaie così impressionanti. L'uomo manifestò il suo turbamento per l'abbattimento della sua compagna di esperienza chirurgica indicandola alla visitatrice: "Questa signora sta proprio giù..."  Lui si faceva forza e coraggio e, sentire Elena che diceva "Meglio morire!" piuttosto che soffrire quell'iter doloroso, lo scoraggiava. I visitatori erano infagottati in camici sanitari, sovrascarpe e mascherine. Elena pensò che la donna con le occhiaie, che la salutò facendole auguri di guarigione, fosse la madre dell'uomo che dimostrava un'età così giovanile.

Egli passò in reparto prima di Elena, dato che quando lei era arrivata lui già era lì.

Ben presto toccò anche ad Elena. Da quando aveva ripreso conoscenza si era accorta di non avere più voce. Riusciva solo ad emettere un soffio quasi senza suono. Le dissero che era conseguenza dell'anestesia.



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