martedì 20 gennaio 2015

Chirurgia Toracica

Da: Sanihelp.it 

Bronco riparato con cellule staminali: è il primo caso

di 
Pubblicato il: 20-01-2015

Sanihelp.it - Il New England Journal of Medicine ha pubblicato i risultati del primo caso di riparazione del tessuto bronchiale con cellule staminali.  La tecnica è stata sviluppata dal dottor Francesco Petrella, vice direttore della Divisione di Chirurgia Toracica dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano, in collaborazione con la Cell Factory della Fondazione Ca' Granda Policlinico di Milano e con il professor Fabio Acocella del Dipartimento di Scienze veterinarie per la salute, la produzione animale e la sicurezza alimentare dell’Università Statale.
«Abbiamo prelevato le cellule staminali adulte mesenchimali dal midollo osseo di un giovane di 42 anni sottoposto all’asportazione del polmone destro per mesotelioma pleurico - spiega Petrella – Le abbiamo espanse e inoculate tramite una metodica mininvasiva, la broncoscopia flessibile, nell'area del  bronco dove si era creata una fistola post-chirurgica, una sorta di ferita aperta tra il bronco e il cavo pleurico, dovuta alla mancata cicatrizzazione che normalmente avviene dopo la chirurgia. La  metodica si è rivelata efficace nello stimolare la cicatrizzazione del bronco, evitando così altri interventi invalidanti».
«Le cellule staminali mesenchimali sono in grado di migrare e attecchire nelle aree di infiammazione e di danno ai tessuti. Una volta impiantate nel sito bersaglio da curare, hanno la capacità di instaurare un contatto con il microambiente cellulare circostante, fenomeno definito cross-talk, che consente un processo di riparazione e/o rigenerazione, con graduale ripristino delle funzioni danneggiate».
«Da decine di anni la letteratura mondiale propone soluzioni invasive per risolvere il grave difetto di cicatrizzazione chiamato fistola post-chirurgica – dichiara  Spaggiari - che si produce in circa l'8% dei casi di pneumonectomia e nel 3% dei casi di lobectomia e può essere letale.
La tecnica clinica sviluppata allo IEO è l'esito di un precedente studio sperimentale condotto da IEO e Università Statale di Milano e il gruppo milanese ha seguito tutte le procedure di autorizzazione richieste dall'Aifa per l'utilizzo delle staminali nell'uomo.
«Ora creeremo un protocollo di studio e inizieremo una ricerca clinica - conclude Spaggiari - per diffondere la nostra metodica alla pratica clinica. Sono necessari approfondimenti prima che possa diventare standard. In futuro pensiamo di estendere i risultati ottenuti oggi sulle vie aeree anche ad altri distretti anatomici».

Nota di chi gestisce questo blog: Il Prof. Lorenzo Spaggiari è:

Professore di Chirurgia Toracica - Università degli Studi di Milano - Direttore Programma Polmone - Direttore Divisione di Chirurgia Toracica - Istituto Europeo di Oncologia

Tutti felici tutti contenti: esempio di giornalismo ridicolo

Da: La Stampa 20/01/2015
di: ELENA MASUELLI

Italiani detenuti in India, annullato l’ergastolo: Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni liberi

I due erano stati arrestati nel febbraio del 2010 con l’accusa di aver ucciso Francesco Montis, loro compagno di viaggio.

Cinque anni in un carcere indiano per una tragedia fatta passare per crimine, fra avvocati che mancano, scioperi, festività induiste, processi rinviati, ma adesso Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni sono liberi. La Corte Suprema indiana ha annullato questa mattina l’ergastolo cui erano stati condannati, in primo e secondo grado, per la morte dell’amico Francesco Montis, con cui Tomaso ed Elisabetta erano in viaggio nel 2010, quando il ragazzo sardo, venne trovato morto nella loro camera d’albergo. Subito dopo aver appreso la decisione l’ambasciata d’Italia ha avviato le procedure per ottenere il loro rilascio dal carcere e disporne il rientro in Italia. La madre di Tomaso, Marina Maurizio, che da anni trascorre lunghi periodi a Varanasi per stare vicina al figlio, ha annunciato su Facebook la fine della loro odissea. 
La morte di Francesco  
Tomaso Bruno, oggi 31enne, di Albenga, Elisabetta Boncompagni, 42 anni, torinese, e Francesco Montis, sardo di Terralba, 30 anni all’epoca della tragedia, fidanzato di Elisabetta, sono di passaggio all’hotel Buddha di Chentgani, alla periferia di Varanasi, nel nord est del subcontinente indiano. È il 4 febbraio 2010. I tre ragazzi fanno uso di droga, hashish ed eroina, Francesco si sente male, i due lo portano in ospedale dove ne viene dichiarata la morte.  
L’accusa, delitto passionale  
I due ragazzi vengono rinchiusi il 7 febbraio del 2010 nel carcere di Varanasi, accusati di omicidio e condannati per quello che i magistrati indiani hanno considerato di un delitto passionale: Francesco era infatti il fidanzato di Elisabetta e i due, Tomaso ed Elisabetta, lo avrebbero ucciso per potere stare insieme.
L’autopsia fatta da un oculista e il corpo cremato  
L’esame dell’accusa si basa sull’autopsia effettuata da un oculista, il corpo di Francesco viene subito cremato, l’obitorio è infestato dai topi, e questo rende impossibile una seconda perizia. Il referto parla di morte per asfissia da strangolamento e conta 6 ferite da arma contundente. Non serve a nulla una lettera della madre di Francesco, che ammette i problemi di salute del figlio, che soffre di gravi crisi d’asma, che avrebbe potuto scagionare i due ragazzi. 
Il processo  
Dopo un anno di detenzione, il pubblico ministero chiede per Elisabetta e Tomaso la condanna a morte per impiccagione. Il 23 luglio 2011 sono condannati all’ergastolo, a fine settembre 2012 la pena è confermata in appello. la sentenza recita: «Il movente che ha spinto i due accusati ad uccidere Francesco Montis non si può dimostrare per insufficienza di prove, tuttavia si può comunque ipotizzare che Tomaso ed Elisabetta avessero una relazione intima illecita». Da allora i due italiani aspettavano in carcere la sentenza della Corte Suprema di Delhi, fra lentezze, assenze, tradizioni e decine di rinvii.   
La detenzione  
I due ragazzi sono reclusi nel carcere di Varanasi: vivono in “barak” che ospitano sino a 140 detenuti e che in estate sfiorano i 50 gradi. Hanno la corrente elettrica solo qualche ora al giorno, bevono acqua non potabile che devono procacciarsi da un pozzo comunale in mezzo al carcere e dormono a terra su strati di stuoie e coperte. Non è permesso loro alcun accesso a internet né l’uso del telefono: nessun contatto con il mondo esterno, insomma, se non la scrittura di lettere. E non sono stati concessi né rimpatri né libertà su cauzione. 
 Il sostegno dall’Italia  
In una vicenda che spesso è stata accostata a quella dei due Marò, con la nemmeno troppo velata accusa di essere dimenticata rispetto all’attenzione riservata a Latorre e Girone, moltissime sono state in questi anni le iniziative di sostegno, messe in campo dalle famiglie e dagli amici. L’associazione “Alziamo la voce” è stata creata dagli amici e dai parenti dei ragazzi, «per non fare spegnere le luci sul caso». Su Facebook è nato il gruppo “Tomaso libero”, mentre il regista bolognese Adriano Sforzi, ha realizzato il film “‘Più libero di prima” che racconta la storia dei ragazzi reclusi in India, basato su lettere e riflessioni che Tomaso ha scritto in carcere, e che adesso può essere terminato.  


Che dire? Meglio ridere che piangere, perché ci sarebbe da piangere a leggere questo articolo che documenta l'esito, fortunatamente favorevole per i due protagonisti, della loro vicenda giudiziaria indiana.

La prima cosa che viene da chiedersi, come per altri articoli dei nostri giornali sugli argomenti più disparati, è in quale realtà vivono certi giornalisti e cosa pensano di fare nel proporcela. Forse pensano di convincerci, come nel caso sopra riportato, che gente di circa 40 anni, come la donna protagonista della vicenda, è una "ragazza"?
In tutto l'articolo, infatti, viene così definita insieme ai due compagni di uso di droga, più giovani di lei ma sempre gente di 30 anni circa!
Questo modo sciocco e fuorviante di porgere la realtà, quasi sollevando le persone dalle responsabilità personali "perché so' regazzi", lo trovo intellettualmente disonesto e ridicolo.
Fa il paio con gli sciocchi che hanno definito due donne molto intraprendenti come Greta e Vanessa "due ragazzine"!...
Viene da dire: "Ma in quale mondo vivete?"

Il resto è il giusto lavoro del cronista che riporta come funziona la giustizia indiana e come sono le carceri lì!!!

Anche il riferimento ai due militari italiani, sequestrati senza un qualsivoglia rinvio a giudizio da tre anni, è cronaca e non colpa di chi lo riporta: infatti teste marce dal pensiero debole sono riuscite a fare pure questo, paragonare la vicenda di due militari prestati ad una nave privata che trasportava petrolio, indispensabile al fabbisogno energetico dell'Italia che ne è priva, alla privatissima vicenda di tre persone che erano andate in India per ben altre ragioni.
Le teste marce dal pensiero debole, che sarebbe il pensiero che vede una sola faccia della realtà trascurando le innumerevoli altre, sono quelle che si lamentano se trovano il benzinaio senza carburante che serve alle loro automobili, che si lamentano se il riscaldamento non ha gasolio, se le fabbriche si fermano perché i macchinari vanno a gasolio, senza chiedersi come ci arriva fin lì dove serve alle loro comodità! Forse pensano, le teste marce, che l'Italia ha i pozzi di petrolio come il Texas... chissà!
I due militari italiani avevano delle regole d'ingaggio scritte e se c'è qualcosa che non si capisce in questa brutta storia che riguarda lo Stato Italiano, perché la divisa che indossano rappresenta lo Stato Italiano e non sono due civili "in scampagnata indiana per droga facile", è la ragione per cui il Comandante civile della nave, che aveva richiesto l'aiuto militare per difendersi dall'assalto dei pirati, non era sotto il comando militare del più alto in grado della scorta militare presente sulla nave. Come ha potuto un civile decidere di accostare in porto indiano, dalle acque internazionali dove si trovava, avendo a bordo MILITARI della nostra Marina!! Non erano certo semplici passeggeri. Era il Capo militare di tale scorta che doveva decidere.