mercoledì 23 giugno 2021

MADRE Cap. IX

Capitolo IX

Quando percepì per la prima volta che sua madre aveva qualcosa di diverso dagli altri, qualcosa che la confinava ad un livello inferiore rispetto a tutti gli altri?
Non quella volta del suo terribile mal d'orecchi quando suo padre, pallido in volto, disse freddamene a sua madre: "Sei matta Serena."
Lui non partecipava al suo terribile dolore, mentre sua madre, accovacciata sul letto accanto a lei, cercava di lenire la sua sofferenza accudendola. Sua madre soffriva per lei, suo padre era distaccato e...cattivo.

Fu quando andarono in un ambulatorio, con tutte porte bianche  e la mamma fu visitata da un giovane medico: era in sottoveste sdraiata sul lettino,  suo padre in piedi con il cappotto sbottonato ed il cappello nella mano con il braccio steso lungo il fianco. Ascoltava attento quello che il giovane medico gli diceva ed aveva un'aria annichilita. Poco prima, dimenticata la presenza della bambina perché supposta troppo piccola per capire, dalla porta, di cui un battente era dischiuso, ella aveva assistito alla visita e si era vergognata per la prima volta di sua madre perché, mentre il dottore la toccava per visitarla, rideva scioccamente e incongruamente sussultando ad ogni sfiorarla del medico. Ricordò anche le parole conclusive che il dottore disse a suo padre: "E' mania di persecuzione."

Lei sua madre la vedeva normalissima. Si prendeva cura di lei, della casa, di suo padre e fu l'atteggiamento che percepiva negli altri verso sua madre che le dette angoscia e insicurezza.
Era come se la considerassero inferiore, con indulgenza, perché era una donna fine, buona, religiosissima.. Ma..poverina.. con qualcosa che la relegava in una condizione non uguale a quella di tutti gli altri, una condizione che era uno stigma che la faceva diversa..
Ma questo per Rita era inaccettabile.
Odiava chiunque si permettesse di parlare in modo condiscendente, oppure pietoso, o tollerante e comprensivo di sua madre, relegandola con ognuno di questi atteggiamenti, benevoli o ipocritamente malevoli, in uno stato diverso dal loro e comunque misero, da compatire..

Fin da piccola rilevava che queste persone, tranne poche eccezioni, avevano ciascuna difetti e comportamenti che le rendevano inferiori a sua madre, e dunque come potevano permettersi di fronte a lei quegli atteggiamenti sicuri di esserle superiori?
Rozze ex contadine, ignoranti, volgari in alcuni casi, provenienti dall'ambiente in cui i suoi genitori erano nati, un piccolo paesino del preappennino, urbanizzate senza aver perso nulla dei loro modi primitivi, cambiati soltanto gli abiti da lavoro sporchi di terra con abiti cittadini che ne mettevano ancora di più in risalto l'aspetto agreste. Queste erano le donne che frequentavano i suoi genitori, essendo parenti o semplicemente compaesane, insieme ai loro altrettanto rozzi uomini.

Lei vedeva i modi naturalmente fini di sua madre, il suo parlare in italiano, la modestia del suo fare a fronte di sfacciate sicurezze e risate sguaiate di quelle persone, sicurezze fondate sulla loro ottusa inconsapevolezza di ciò che erano.
Come avrebbe voluto dirlo, urlarlo negli anni della sua infanzia... Invece aveva taciuto perché suo padre era fra quelli che trattavano sua madre come un essere inferiore, trattandola con disistima, spregio e violenza anche.
Certo lui nonostante le difficoltà in cui l'aveva messo il regime fascista, gli anni della guerra che gli erano stati rubati, era riuscito a costruire per la loro famiglia una piccola sicurezza e tutti ne parlavano bene, come di una persona capace ed intelligente, alcuni di quel mondo di paesani urbanizzati lo invidiavano... Mamma Serena invece si limitava a fare la casalinga, ma come facevano in molte negli anni cinquanta del 1900.
I suoi doveri li svolgeva benissimo anche se la taccagneria di suo marito non le aveva facilitato in nulla certe sue inclinazioni.
Le sarebbe piaciuto avere un macchina da cucire, anche usata, ma lui non gliela comperò mai e lei non si imponeva, non insisteva, temendone le ire. Allora comperava dei modelli di carta copiativa che, messi sulla stoffa e passandoci il ferro da stiro, lasciavano il segno del taglio da fare. Poi tagliava e cuciva tutto a mano.
In questo modo cucì alla sua bambina ormai decenne un vestito estivo in cotone, con bei disegni di bacche color arancio chiaro su fondo bianco: il bustino perfetto con i cugni al posto giusto, la gonna a cannelli sciolti... Quando era piccola le faceva dei bei fiori di cartapesta, oppure con la carta stagnola delle caramelle formava altri fiori di diversi colori usando come intelaiatura del filo di rame preso da pezzi di fili elettrici gettati via..
Fino ad anni sessanta inoltrati Serena non ebbe una lavatrice e lavava le lenzuola a mano nella vasca da bagno..
Non chiedeva nulla, aveva un solo cappotto, un abito nuovo per l'inverno ed uno per l'estate ogni anno.. Qualche vestaglietta la comperava da sé sulle bancarelle del mercato. Di sé diceva: "Lui ha lavorato, ma io ho fatto sempre la cotichella."

Sua figlia l'amava immensamente e soffriva immensamente per lei. Non poteva odiare suo padre perché si diceva infelice anche lui. Lo odiò una volta, forse due, perché annientò sua madre quando avrebbe dovuto difenderla.

MADRE Cap. VIII

Capitolo VIII

Tutto si era compiuto.
I suoi primissimi anni con sua madre li ricordava nitidamente, come degli spezzoni di un film, con immagini, parole, sentimenti.
Come il ricordo del suo terribile mal d'orecchi.
Serena era una donna dolce, buona.
Rita non si era mai dovuta vergognare di lei. Come quella volta che, invece, si era vergognata di suo padre tornato da una partita di caccia ubriaco, portato da un suo collega letteramente di peso, con un braccio di suo padre intorno al collo di quell'uomo educato e dignitoso, che lo aveva depositato sopra una sedia della loro unica stanza che fungeva da cucina e soggiorno, ma che era anche l'ingresso di quella soffitta abitata da altre famiglie, che di lì dovevano passare perché l'abitazione sotto i tetti era fatta a scatola cinese.
Sua madre ringraziava preoccupata e timida il collega del marito con cui era uscito all'alba per una battuta di caccia, lo sport che suo padre amava: si faceva anche le cartucce da solo e Rita assisteva interessata e divertita a quella preparazione, senza toccare nulla, l'unica cosa che le era concessa era infilarsi nei ditini i cilindri di cartone colorati che costituivano il corpo delle cartucce, mentre lui pesava in un bellissimo bilancino di lucente ottone la polvere da sparo, i pallini, usando i minuscoli pesi di ottone che la affascinavano ma che, guai, suo padre l'ammoniva a non toccare..
Ora era l'ora di pranzo. Serena aveva preparato una delle sue buone minestre di lenticchie. Suo padre, seduto sulla sedia, il suo collega in piedi serio e pronto a congedarsi, iniziò farfugliando ad insistere perché si fermasse a pranzo. L'uomo provò a rifiutare ma, sembrò alla bambina di quattro, cinque anni, che accettasse di sedersi per rispetto a sua madre, vedendola vittima di quella incresciosa situazione.
Serena preparò i piatti con il garbo signorile che le era naturale, ma Rita vide suo padre buttarsi sul piatto che sua madre aveva posto davanti all'ospite e affondarvi il cucchiaio e quasi il volto, insensatamente, visto che già aveva iniziato a mangiare nel suo..
La bambina vide il disgusto sul volto del collega di suo padre. Egli si alzò, questo era veramente troppo, l'ubriaco farfugliò che restasse, sua madre, umiliata, provò a scusarsi, gli avrebbe cambiato il piatto.. Ma l'uomo la ringraziò dimostrandole tutta la sua comprensione in modo contenuto e dicendole: "Non si preoccupi signora, sono rimasto solo per rispetto verso di lei."

Un'altra volta sentì solo la voce di suo padre ubriaco che urlava: "Voglio mia figlia!" Non lo vide perché doveva trovarsi in fondo alle scale che portavano alla soffitta. Sua madre con voce rattenuta e bassa diceva a qualcuno, forse sua sorella che abitava anche lei nella soffitta, "Ho paura." Lei, Rita, sperava che non accondiscendessero al desiderio urlato di suo padre, che non la portassero da lui. Bassa, vedeva tante gambe di uomini e donne che affollavano la sua cucina. Dovevano essere tutti gli abitanti di quel luogo dove i suoi genitori vivevano da quando lei era nata. Erano silenziosi mentre l'ubriaco, due rampe di scale più giù, continuava a gridare: "Voglio mia figlia!"
Una voce sussurrò: "E' andato giù anche Giovanni con..." L'altro nome la bimba non lo capì ma si sentì rassicurata per la presenza accanto a suo padre dello zio Giovanni. Sentì la voce nota del cognato di sua madre che rassicurava l'ubriaco cercando di calmarlo.. Le voci erano due, doveva esserci un altro abitante della soffitta e insieme riuscirono a portarlo a dormire.

Allora sua madre le appariva normale. Suo padre no.
Ricordava anche un episodio in cui Serena, sempre remissiva, nel buio e nel silenzio della loro cameretta diceva a suo marito che dovevano aprire la porta ad Elena, la bambina di sua sorella, che piangendo bussava alla porta della loro camera gridando: "Zia, zia!!" Terrorizzata perché suo padre, Giovanni, stava picchiando sua madre. Prima che la cuginetta di Rita corresse disperata alla loro porta erano arrivate le voci della lite e Serena aveva provato a dire a suo marito che dovevano andare ad intervenire per sedare l'alterco.
Eva era la sorella più piccola di Serena, una donna calma e lavoratrice, tutto il giorno nelle cucine delle trattorie che suo marito prendeva in gestione. Quelle liti erano dovute alle intemperanze dello zio Giovanni, non certo alla povera zia Eva.
Nel silenzio Rita sentì con il cuore stretto Elena invocare la zia piangendo, sentì il magone di sua madre che avrebbe voluto andare in aiuto di sua sorella, e la sua frustrazione alla risposta di suo marito che a Rita sembrò spietata nella sua glaciale indifferenza: suo padre disse no, che non dovevano impicciarsi e rimanere in silenzio facendo finta di dormire e di non aver sentito nulla.
Quando Elena si allontanò senza aver ottenuto né aiuto né consolazione Rita, inerme, sentì nella sua piccola anima la stessa desolata umiliazione di sua madre che aveva ceduto all'imposizione di suo padre.

MADRE Cap. VII

Capitolo VII

Il lunedì Primo Maggio il corpo di sua madre ancora resisteva.
Con quanta nobile dignità sua madre stava morendo... L'unico guasto visibile era quella sacca di sangue che penzolava di lato fuori dalle coltri. Nessun rantolo, solo quel respiro meccanico, profondo che rallentava il suo ritmo un po' per volta dal sabato pomeriggio quando era cominciato.
Guardava quel corpo amato e pensava ai suoi pudori.. Al suo seno bellissimo fino a tarda età, di cui lei aveva usufruito per i suoi primi due anni..
Quando aveva avvertito che dagli altri sua madre era considerata "diversa"?
Non quella volta che, nella cameretta dove tutti e tre dormivano in quel letto alla francese, lei piangeva di dolore per un tremendo male d'orecchi, accoccolata sul letto con sua madre che tentava di calmarla avvolgendole intorno alla testa una morbida sciarpa lavorata da lei ai ferri. Era color acqua marina chiarissima e quel colore le dava conforto, la faceva sentire protetta, avvolta in qualcosa di prezioso. Poco prima le aveva fatto scivolare nel condotto uditivo dell'olio caldo mediante un cucchiaino da caffè.. Ma il sollievo era durato poco.
Suo padre era in piedi in fondo al letto, pallido in volto, appoggiato di schiena alla piccola credenza color crema che costituiva il loro comò. Disse a sua madre: "Tu sei matta Serena."
Lo disse senza essere arrabbiato, freddamente, e alla bimba di tre anni che era Rita sembrò cattivo verso la sua mamma che la curava e la proteggeva così amorosamente.

Ora i respiri profondi erano diventati ancora più profondi e il ritmo lento. Sua madre si stava spegnendo. Arrivò l'infermiere con un carrellino con sopra un macchinario e la fece uscire dalla stanza. Nel corridoio arrivava trafelato suo figlio: bellissimo nella sua divisa di Allievo Ufficiale dell'Aeronautica.
Le si allargò la stretta del cuore nel vederlo! Lo salutò, felice che fosse arrivato, alla fine, ma che fosse arrivato.
Entrò deciso dicendo all'infermiere che era un Medico. Rita intravide che l'infermiere aveva applicato parte di quel macchinario che era sul carrellino sul petto di sua madre. Vide che suo figlio lo aiutava, vide il corpo di sua madre saltare inutilmente scosso dallo stimolatore cardiaco... Suo figlio, girando appena la testa e allungando un braccio, chiuse la porta sulla sua faccia.
Lei restò là fuori consapevole che era finita e dolorante per quell'ultimo estremo tentativo forse dovuto per la prassi medica, ma che le faceva male perché scuoteva inutilmente il bel corpo di sua madre.
Poi suo figlio uscì e le disse che la nonna era morta. L'abbracciò dicendole "Sei meravigliosa."
Non era tenero suo figlio con lei. La donna si chiese perché le avesse detto quella frase: forse perché l'aveva vista sola accanto a sua madre e aveva intuito cosa doveva provare di fronte a quell'agonia.

Dopo il cadavere di sua madre fu messo in una stanza in fondo al corridoio, avvolto con la sua vestaglia rosa.
Suo figlio Marco volle visitare il cadavere per capire, sia pure senza autopsia, di cosa era morta.
Entrarono insieme poi lui volle che uscisse e chiuse la porta.
Lei lo ammirò per il suo sangue freddo, poi però si disse che era un Medico.
Dopo Marco le disse che, essendo il cadavere ancora caldo, aveva potuto spingere le mani in modo da tastarne i tessuti, cercando di sentire gli organi interni.
"Ho sentito una massa anomala a livello del pancreas, una massa che non avrebbe dovuto esserci. Non posso dirlo con certezza, ci vorrebbe un'autopsia, ma potrebbe essere un tumore del pancreas.."
Ormai nulla aveva più importanza.. Lei gli riassunse gli esami che in quell'ultimo mese le aveva fatto fare: la visita cardiologica, la radiografia al torace per il "dolore al costato" che lei aveva denunciato, fino alla diagnosi della dottoressa del Pronto Soccorso a cui aveva dato quegli esami in mano..
"Con la radiografia non vedi niente, ci vuole la TAC." Disse Marco.

L'indomani le tolsero la vestaglia e la dettero a Rita, che la lavò e la indossò per oltre 25 anni. Le sembrava così di averla vicino.
Intorno al viso le legarono, con l'aiuto dei suoi tre nipoti, un fazzoletto di Rita con fiori color lilla e spruzzati d'argento.
Un conoscente che lavorava come portantino in quell'ospedale disse che il cuscino che le avevano portato da casa il sabato, migliore di quelli piatti dell'ospedale, era sparito e consigliò di toglierle la fede perché altrimenti avrebbe fatto la fine del cuscino.
Rita portò a lungo anche quella fede finché un giorno, spalando la neve, le sparì in mezzo ad essa...

MADRE Cap. VI

Capitolo VI

Dopo ore che guardava l'amato volto di sua madre, nell'impotenza totale, decise che sarebbe andata a casa.
La sacca delle urine, pendente fuori dalle coltri al lato del letto, si faceva sempre più scarsa.
Una donna brutta e anziana era lì ricoverata nella stessa stanza a quattro letti. La guardava e le disse: "Va via?"
"Sì, - rispose lei - non mi vede, non mi sente, non posso fare niente."
La donna la guardò con riprovazione: "Quando è morto mio marito è stato in coma due giorni e due notti, ma io non l'ho lasciato un attimo!"
Rita non contrastò l'ennesimo biasimo su di lei e sulle sue scelte, lasciò che quella donna si sentisse di molto superiore a lei, e forse lo era, nel suo inutile essere stata accanto a chi non vedeva e non sentiva più. Quel sacrificio la faceva stare bene con la sua coscienza.
Ma la ragione era sempre stata la coscienza spietata di Rita e delle sue scelte.
Sua madre non la vedeva, non la sentiva, anche se le sfiorava una mano martoriata dagli aghi non avvertiva il suo tocco. Era un coma senza speranza di risveglio. Era straziante. La sua preghiera era stata esaudita, oppure il caso, come sempre, aveva creato quella situazione.
O certo, avrebbe potuto morire all'improvviso e le suore l'avrebbero chiamata, e lei sarebbe corsa per vederla ormai morta. Invece un Dio forse esistente aveva voluto esaudire il suo desiderio di starle accanto e di poter vedere il suo bel profilo, soffrire lo strazio del suo respiro anomalo, e soprattutto di quegli occhi schiusi di cui lei fissava il colore nocciola come se lo scoprisse per la prima volta, così nocciola.. Sua madre non aveva gli occhi marroni... Erano nocciola chiaro..
Si avviò all'uscita dopo aver salutato la compagna di stanza di sua madre, sotto il peso del suo dissenso.
Qualcuno dei medici o degli infermieri le aveva detto che ancora non era il momento, che sarebbe stata lunga quella quieta agonia. La consolava solo il fatto che sua madre non sentiva più niente.
Dormì, stanca. La giornata era stata lunga. Prima il funerale di quella povera Gemma, vittima di una famiglia opprimente. Poi la speranza per sua madre persa in pochissime ore e il telegramma che aveva chiesto di fare subito a suo marito perché dessero una licenza straordinaria a suo figlio che era a Firenze a prestare il Servizio Militare come Ufficiale Medico.
La mattina della domenica si riavviò verso la collina dove sorgeva l'Ospedale.
Sua madre era sempre nella medesima posizione. Riprese a bagnarle le labbra che si inaridivano schiuse a succhiare automaticamente l'aria mentre il mantice del petto altrettanto automaticamente inspirava profondamente.
L'impotenza della sua condizione umana annullava tutto. Ogni reazione. Ci sono momenti in cui dobbiamo stare fermi e solo subire il destino. Sperava solo che dessero la licenza a suo figlio in modo che potesse arrivare mentre era in qualche modo ancora viva, se non il cervello il corpo. Tutto era inutile di fronte alla morte e alla sua potenza.
Uscì di nuovo in corridoio, così fino a sera. Mentre era di nuovo appoggiata alla vetrata si avvicinò  una donna gentile, una persona in visita a qualche ricoverato: "Signora, - le disse - si faccia forza. La vedo da ore che sta giù, proprio giù. Coraggio."
Rita la ringraziò un po' sorpresa di quella comprensione, così diversa dal biasimo acido della compagna di stanza di sua madre. Le sorrise pallidamente.
"L'ho vista anche ieri sa.. Ero qui anche ieri in visita ad una mia parente. Lei sta troppo giù. Deve farsi forza."
"Grazie. Mia madre è in coma.. Sta morendo." Disse senza compatirsi, piegata ma asciutta nel suo dolore impotente.
Provò gratitudine per quella donna gentile che aveva avvertito il suo sentimento, così diversa dalla forse più rozza compagna di stanza di sua madre, legata a sentimenti più elementari che non derogavano da rituali scontati.
Ormai le era insopportabilmente doloroso guardare la sacca di urina che non era più urina, ma sangue, segno che i reni non funzionavano più.
Il respiro di sua madre era solo una potenza meccanica di un corpo forte in cui la vita, dopo 85 anni, se ne andava lentamente dimostrando la forza vitale che aveva.
E lei pensava a quella frase di risposta che Serena le aveva dato mentre la conduceva in ospedale, in auto, accanto a sé: "Mamma, come ti senti?" E lei con un filo di voce ma chiara e lucida: "Morire".
Sua madre la stupiva sempre. Per la sua asciutta e consapevole rassegnazione anche quando le aveva rivelato cose gravi che aveva subito da suo padre, senza moto di rabbia o di risentimento o sdegno: semplicemente, piattamente, come di cosa accaduta e in quanto tale non modificabile, subita e incommentabile, perché la sua stessa gravità aveva spento tutto come la morte.
E lei pensava a quando quella vita che si stava spegnendo sotto i suoi occhi era nata, fragile e trascurata da una madre già sfiancata da sei precedenti parti e gravidanze.
"Mia madre si ammalò di mal d'ossa, - le raccontava con la stessa rassegnata dolcezza - la rigiravano con le lenzuola perché non riusciva più a muoversi. Mi affidarono a mia sorella di dieci anni. Lei mi dava da bere un po' di latte intingendo un ciuccio improvvisato con un telo pulito dove dentro metteva della farina per dargli la forma di un capezzolo. A tre mesi non riuscivo a tenere la testina ritta che mi ciondolava quasi senza vita. Per capire se ero viva una volta mi misero uno specchietto davanti alla boccuccia e si appannò, così capirono che ancora respiravo."
Comunque ce l'aveva fatta. Era cresciuta in quella grande casa patriarcale piena di fratelli e di sorelle, altri quattro ne erano nati dopo di lei. Ed era un vanto per lei ripetere: "Eravamo in undici! Tutti viventi!" In un tempo, quello all'inizio del ventesimo secolo, in cui la mortalità infantile era altissima.

La domenica finì. Un'altra notte sarebbe passata con quel respiro meccanico, profondo eppure calmo.. Con quelle labbra schiuse che si seccavano, con quegli occhi schiusi che non vedevano più nulla, con la sacca ormai piena a metà di sangue scuro..
Con quale dignitosa grandezza sua madre moriva.. Nessuna disperazione, solo quel misterioso dolore se la sollevavano, doveva essere un dolore acuto per strapparle quel grido.. Poi quella quieta consapevole risposta in auto... Era questa la pazza, la matta, la schizofrenica?