mercoledì 30 maggio 2018

Fiori sopra l'inferno


IBS ogni tanto chiede brevi recensioni di libri in uscita e, se vanno bene, in cambio ti invia il libro gratis.
Per la recensione hai a disposizione solo le prime pagine del libro in questione, se non mi ispira nulla non faccio la recensione, come è accaduto, ma se mi aggancia in qualche modo allora si.
L'ho accettato solo due volte e questa è la seconda. Il libro mi è stato inviato gratis e non mi ha deluso, come accadde anche con l'altro, segno che già dall'inizio di un libro si può riconoscere una buona scrittura. Questa la mia recensione:
Longanesi - Fiori sopra l'inferno
Pennellate di una realtà tutta da scoprire: prima descrive un luogo e sembra di vederlo come in un quadro. Non si comprende cosa sia l'orfanotrofio che nel 1978 è ubicato nell'antico edificio. Non si sa cosa siano le creature del Nido..
Il tempo si sposta all'Oggi e di nuovo la descrizione dei luoghi, che si fa qui accurata nei particolari minimi, rivelando ancora di più la forma perfetta della scrittura della giovane scrittrice. 
Infine ci troviamo in una scena del crimine e veniamo lasciati in attesa…

Una intervista alla scrittrice dopo l'uscita del libro.



Ilaria Tuti
ARTICOLO DI: 
In tanti anni di Mangialibri questa è la prima volta che per organizzare un’intervista mi basta uscire di casa, percorrere cento metri, e sedermi al tavolino di un bar. Ma l’occasione è davvero particolare perché ad attendermi c’è Ilaria Tuti. Oltre ad essere mia concittadina, Ilaria è l’autrice di un romanzo che, non ancora uscito, già faceva parlare di sé durante una delle più importanti fiere internazionali del libro e oggi sta velocemente scalando le classifiche di vendita italiane. Ilaria è una giovane donna dal carattere riservato ma con uno sguardo determinato che fa capire la serietà del suo lavoro. In poche parole riesce a sintetizzare il senso della suo scrivere, del suo essere friulana e alcuni dei meccanismi che l’hanno portata a racchiudere in un romanzo thriller una vicenda storica dai risvolti inquietanti.



Ilaria, il tuo Fiori sopra l’inferno è un esordio da manuale. Tuttavia, non di esordio vero e proprio si deve parlare, dico bene? Raccontaci un po’ di te! 
Sono nata nel 1974 e ho sempre vissuto a Gemona. Scrivo dal 2011, ma ho cominciato con piccoli racconti su forum di scrittura e, tramite alcuni amici, ho partecipato a dei contest online vincendone alcuni. Ho scritto anche dei racconti per i Gialli Mondadori ricevendo buoni riscontri e soddisfazioni. Ad un certo punto però ho sentito il bisogno di cambiare dimensione e ho tentato la strada del romanzo.
Hai studiato economia, da bambina volevi fare la fotografa, ti sei appassionata di scrittura e illustrazione. Come sei approdata alla scrittura? 
Sin da quando ero una bambina dell’asilo mi piaceva dipingere e ho sempre pensato che il mio futuro sarebbe stato in qualche modo legato a quell’arte. In effetti, anche la pittura è un modo, seppure più complesso e lento, di raccontare storie. Anche un quadro ha una propria ambientazione, dei personaggi per cui, alla fine, la voglia di raccontare storie, in un modo o in un altro, è sempre stata dentro di me. Ad un certo punto mi sono resa conto però che per farlo mi veniva più immediato e naturale scrivere, per cui ho scelto di continuare.
E sei subito approdata al thriller? 
Ho iniziato scrivendo alcuni racconti noir, di fantascienza e anche un horror splatter rurale ambientato a Tarvisio, che è piaciuto molto e che ha vinto anche un concorso. Sono un’appassionata dei romanzi Stephen King e Donato Carrisi, che mi ha davvero ispirata.
Raccontami un po’ del tuo libro. Com’è nato il personaggio di Teresa Battaglia? Una donna così poco fashion e fuori dagli schemi…
Stavo pensando a un racconto da scrivere e ho avuto questa specie di illuminazione: la visione di una donna non più giovanissima, con un fisico debilitato e intenta a studiare dei foglietti di carta. Non pensavo a Teresa come alla solita eroina trentenne o quarantenne irrisolta e mi è subito sembrata terribile e affascinante al tempo stesso. La volevo commissario di polizia, senza la pistola e non abituata a sparare, quindi destinata a un confronto psicologico più che fisico; una donna che usa la mente come arma principale ma che allo stesso tempo è anche il suo peggior nemico, come in una grande sfida. Senza svelare troppo, posso dire che, alla fine, con questo romanzo ho cercato in qualche modo anche di dare voce a chi soffre come Teresa, portando alla luce le paure, le crisi, la solitudine che queste persone possono provare.
Alcuni dettagli autoptici descritti nel romanzo sono molto precisi. Come ti sei documentata? 
Leggendo i romanzi di Carrisi mi sono appassionata alla criminologia e ora, per rilassarmi, la sera mi leggo molti manuali riguardanti questa materia e che in effetti sono una botta allo stomaco, ma ti danno anche una strepitosa chiave di lettura della mente umana e soprattutto mi hanno dato lo spunto per dare a Teresa quella compassione straordinaria che lei ha per alcuni soggetti definiti “mostri”, che sono persone che in effetti hanno avuto un passato interrotto. Studiando questa materia, la cosa che mi ha colpito di più è che questa interruzione avviene in un arco temporale molto specifico, cioè dalla nascita ai sette anni, che è il periodo di tempo in cui un bambino sviluppa la sua emotività e l’empatia nei confronti degli altri. Se in quel periodo di tempo avviene un trauma, un abuso o un abbandono psicologico, può accadere che questa emotività smetta di evolvere, creando disturbi che in età adolescenziale possono diventare pesanti.
Come sei arrivata invece agli studi del dottor Spitz ai quali fai riferimento nell’evolversi del romanzo? 
Studiando la psicologia di uno dei personaggi, mi sono imbattuta in questi studi che erano stati addirittura iniziati da Federico Secondo di Svevia, che aveva cercato di capire quale fosse il linguaggio naturale dell’essere umano, usando cento neonati che poi aveva rinchiuso in una torre. Il suo scopo era scoprire quale sarebbe stato il linguaggio autentico di un bambino al quale viene dato solo il nutrimento e non affetto. I risultati furono tragici. Da Federico Secondo di Svevia sono arrivata agli studi del dottor Spitz, che aveva osservato e analizzato la condizione di alcuni orfanotrofi americani degli anni Quaranta, il cui metodo di lavoro era simile.
Come mai hai scelto di inserire anche il personaggio di Massimo Marini, sottoposto del commissario Teresa Battaglia e nuovo arrivato alla prima prova con la squadra? 
Non ho mai trovato interessanti i libri con un unico protagonista. Nella vita, tutti noi interagiamo continuamente creando legami più o meno profondi. Teresa, pur non essendo madre, ha un grande istinto materno e in Massimo trova un amico/nemico nel quale riversare qualcosa dell’essere suo madre, seppur trattandolo bruscamente. E poi un personaggio forte ha sempre bisogno di una spalla, qualcuno con cui intrecciare un rapporto solido e fatto anche di battute più o meno scherzose.
L’ambientazione del romanzo è, per chi vive qui, riconoscibile e ci riporta al confine tra Friuli e Austria, dalle parti di Tarvisio…
Sono i luoghi della mia infanzia, dove ho trascorso molto tempo e dove continuo ad andare. Ho immaginato un paesino nei pressi della cittadina, isolato e in alto sulle montagne. Un luogo misterioso e affascinante allo stesso tempo.
Qual è il tuo metodo di lavoro? Sin da subito sai dove inizi e dove andrai a finire?
Sì, io so esattamente dove voglio arrivare. Lavoro con scalette dalle quali mi discosto un po’ durante il percorso, ma per scrivere un thriller è importante avere subito ben chiaro l’impianto indiziario.
Ho letto che un paio di anni fa il tuo desiderio era quello di scrivere un giallo classico con delitto, ma ambientato in una stazione spaziale. Una specie di enigma della camera chiusa, insomma. A che punto di realizzazione è questo tuo desiderio? 
È ancora un punto molto lontano per ora, perché a monte c’è un lavoro di documentazione enorme per evitare di commettere errori. Ma si tratta di una situazione molto affascinante. Non vorrei fosse una storia di fantascienza ma la situazione, quella di una stazione spaziale, sarebbe davvero estrema e con dei paletti impossibili da oltrepassare, per cui una condizione affascinante.
Insomma, una vera sfida. A parte Stephen King e Donato Carrisi, chi altri fa parte del tuo cosmo letterario? 
Leggo di tutto, a dire il vero e mi piacciono molto le poesie di Alda Merini. Secondo me è una donna che ti insegna veramente a mettere il cuore in quello che scrivi. Le sue frasi sono vera passione. E poi, forse l’ha detto Carrisi, chi scrive thriller dovrebbe leggere romanzi d’amore per imparare a mettere la passione dentro ai suoi personaggi e, viceversa, chi scrive romanzi d’amore dovrebbe leggere anche i thriller per apprendere i tempi della suspense.
Secondo te, vivere in una piccola cittadina come Gemona ed essere piuttosto lontano dai grandi eventi comporta dei limiti per uno scrittore o piuttosto lo consideri un valore aggiunto? 
Ho già avuto modo di esprimere questo concetto. Da ragazzina senti il bisogno di andartene e vivere altri luoghi, di fare esperienze diverse, mentre quando sei un adulto cominci a sentire il bisogno di radicarti in un luogo. Provi vero affetto per i tuoi luoghi, quelli dove sei nata e qui noi abbiamo panorami estremamente suggestivi che ti permettono di creare atmosfere uniche. In questo libro ho voluto proprio dichiarare questo mio affetto per la nostra terra e, dai riscontri che ricevo, penso di esserci riuscita.