mercoledì 31 marzo 2021

MADRE Cap. II

Capitolo II

"Avvisa papà che sono andata da nonna."
Diego annuì un poco triste. "Saluta nonna."
Il viaggio in auto era lungo e con il traffico poteva arrivare a toccare le due ore. Rita lo sapeva bene. Ma data l'ora di pranzo forse, essendoci meno gente in strada, ci avrebbe messo il tempo minimo di cinquanta minuti.
Guidando pensava con ansia a sua madre. Cosa poteva essere questo dimagrimento improvviso? Il Medico di Base se ne era voluto lavare le mani con quella decisione del ricovero in Ospedale oppure c'era davvero qualcosa che lo motivava?
L'avrebbe portata all'Ospedale più vicino a casa sua. Era impensabile un Ospedale dentro Roma, lontano dal suo lavoro e dalla sua abitazione, dovendo andare da lei tutti i giorni.
Sua madre aveva solo lei. Era sempre stato così e un poco anche quando era ancora vivo suo padre.

Aveva Monica di appena un anno quando, dalla telefonata quotidiana che le faceva, aveva saputo che  il forte raffreddore che si trascinava da tempo quel giorno le aveva provocato l'uscita di sangue da un orecchio.
"Mamma! Non è normale! Vai subito dal tuo medico!"
L'aveva esortata preoccupata.
"Ma non è niente, è solo raffreddore.." Le aveva risposto lei con voce tranquilla.
"Mamma, ho studiato un po' Medicina, lo sai, potrebbe essere mastoidite. Ti prego va dal Medico!"
Poi aveva telefonato a suo padre in ufficio. Due telefonate al giorno da quando si era sposata e, solo apparentemente, era uscita dai problemi quotidiani dei suoi genitori.
Suo padre le rispose seccato invece di preoccuparsi.
"Papà, potrebbe essere mastoidite, se non si interviene subito si deve operare.."
La voce di suo padre era fra il risentito e l'arrabbiato: "Alla mia età non devi essere tu che mi devi dire cosa debbo fare."
La frustrazione in Rita si mischiava alla preoccupazione. Lei era a mezz'ora di automobile da casa loro, senza avere né l'auto, che serviva a suo marito per andare al lavoro, né ancora la patente di guida, con le mani legate da quell'amore di bambina che le era nata da un anno.
Suo padre, pur amandola, non aveva preso bene l'essere rimasto solo con sua madre.
Rita si era sentita assurdamente in colpa per averli lasciati da soli, con i loro problemi, che lei non aveva certo potuto risolvere, solo soffrire e tanto con loro e per loro, ma la sua presenza in casa era comunque una consolazione al loro non saper vivere in serenità.
Suo padre in particolare si era aggrappato a lei come un naufrago al suo salvagente. Questo peso Rita lo aveva sentito su di sé e se ne era sentita oppressa, limitata in quella che poteva e doveva essere la sua vita.
E la sua vita era ora con suo marito e la sua bambina. Sapendo dei loro problemi ogni giorno faceva due telefonate per sentire due versioni diverse del loro quotidiano dissapore.
Sposata e madre non chiedeva nessun aiuto ai suoi genitori, abitavano lontano e lei sapeva cavarsela da sola, ma era sempre preoccupata per loro giacché, non avendo più lei in mezzo a loro a fare da cuscinetto, dopo che lei se ne era andata le cose non potevano che peggiorare.
Suo padre era stanco delle stranezze dovute alla malattia di sua madre e non era né dolce né comprensivo con lei, ma brusco, distante.
Così finì che la mastoidite diagnosticata al telefono da Rita si rivelò tale e sua madre, dall'ospedale dove era ricoverata, le disse "che le avevano infilato un ferro nell'orecchio che era pieno di pus"..
Rita non poteva prendere i tre autobus che ci volevano per raggiungere l'Ospedale al centro di Roma, abitando in periferia, con la piccola in braccio. Era impensabile salire e scendere da mezzi affollati e fare percorsi a piedi con quel dolce peso. Aspettava che suo marito l'accompagnasse, ma lui era impegnato tutto il giorno fuori città e lei poteva sentire sua madre solo per telefono. Grandi erano il suo dolore e la sua preoccupazione quando le giunse una telefonata di un suo zio, fratello di suo padre, che diceva di essere in ospedale ed era scandalizzato di non trovarvi nessuno: né il marito, né la figlia.
Smarrita la giovane si chiese dove fosse suo padre, perché non le fosse vicino, visto che aveva subito un'operazione delicatissima.
Spiegò allo scandalizzato zio la sua situazione di madre di una bimba piccola, senza mezzi di locomozione per raggiungere un Ospedale così lontano se non quelli pubblici e bisognava prenderne diversi.
Ma lui non fece sconti né fu comprensivo, aumentando il senso di impotente frustrazione di Rita, di fronte alla latitanza irresponsabile di suo padre verso il quale quel suo fratello aveva sempre dimostrato un critico malanimo. Comunque in quel caso lo zio Angelo aveva ragione: sua madre era appena uscita dalla sala operatoria e nessuno della sua famiglia era accanto a lei.
Suo padre non aveva giustificazioni: era prossimo, per sua scelta, alla pensione. Voleva infatti approfittare di una legge che gli consentiva di andarsene con dieci anni di abbuono e aveva detto che avrebbe fatto domanda. Era incomprensibile che non avesse chiesto un permesso o un giorno di ferie per stare accanto alla moglie che veniva operata.

Questi ricordi la riempivano di tristezza mentre guidava. Suo padre aveva sempre avuto un atteggiamento critico nei suoi confronti, colpevolizzante. Eppure lei, pur essendo un'adolescente, si era fatta carico dei problemi di sua madre e lui quando era bambina non le aveva risparmiato le scenate dei loro litigi, responsabilizzandola come se fosse stata un'adulta.
E responsabile lei lo era stata sempre. Come quella volta che lui serio e teso le disse: "Quella matta di tua madre mi ha denunciato perché l'ho picchiata e ora il maresciallo vuole sentire te. Devi attenuare quello che ha detto lei perché rischio pure al lavoro, capisci?"
Quanto avrà avuto? Dieci anni forse; non andava ancora alle scuole medie. Si rendeva conto di tutto, come sempre, fin da piccolissima. E provava ansia e vergogna per qualcosa che subiva, che la faceva soffrire, di cui non aveva colpa.
In piedi davanti alla scrivania del maresciallo spuntava solo con la testa dal piano di essa, oltre il quale il benevolo ma attento uomo di legge la interrogava. Suo padre taceva, in piedi anche lui accanto a lei, mentre lei rispondeva vergognandosi tantissimo per quella incresciosa situazione in cui suo padre l'aveva messa e di cui lui dava tutta la colpa a sua madre perché l'aveva denunciato.
Fece il possibile per attenuare il carico su suo padre. Certo c'era stato qualche schiaffo, ma nulla di gravissimo.
Perché mettere una bambina, che da quando era nata subiva spaventi e dolore per i loro litigi violenti, in una situazione che metteva in conflitto la sua coscienza? Eppure suo padre l'amava.

lunedì 29 marzo 2021

Seconda Pasqua con il Covid

 

La festività di Pesach (o ancora Pasqua Ebraica) cade dal 28 marzo al 4 aprile 2021.

 Alle origini della festa

Circa 3200 anni or sono Giacobbe, insieme ai suoi figli e alle loro famiglie, si trasferì in Egitto per raggiungere il figlio Giuseppe che ne era divenuto viceré.
I discendenti di Giacobbe divennero assai numerosi, ma non dimenticarono il monoteismo insegnato loro da Abramo. Ciò creò quella che forse potemmo definire la prima manifestazione di Xenofobia, diffidenza ed odio verso i diversi, della storia. Xenofobia che sfociò una vera e propria persecuzione. Un Faraone, probabilmente di altra dinastia rispetto a quella del Faraone che aveva elevato Giuseppe alla carica di viceré, dapprima ordinò che i figli di Israele fossero ridotti in schiavitù usufruendo gratuitamente della loro opera. In un secondo tempo dato che essi, nonostante il duro lavoro, continuavano ad aumentare di numero, diede ordine che tutti i loro figli maschi furono uccisi al momento della nascita.
Jocheveth, una donna ebrea della tribù di Levi, non volle sottostare passivamente all’ordine: prese il bambino e lo mise in un cesto che affidò alla corrente del Nilo nella speranza che un qualche evento miracoloso lo salvasse dalla morte.
La figlia di Faraone vide il fanciullo e, nonostante si fosse probabilmente resa conto che doveva trattarsi di un bambino ebreo, fu presa da grande pietà, lo accolse e lo fece crescere a corte come un figlio. Quel bambino era Mosè: il nome Mosè significa, infatti, “salvato dalle acque”.
Divenuto adulto Mosè andava spesso a fare visita e a recar conforto ai suoi fratelli schiavi. Una volta s’imbatté in un egiziano che, sicuro della propria impunità, maltrattava un povero vecchio: ne risultò una colluttazione durante la quale l’egiziano rimase ucciso.
E’ assai probabile che, se lo avesse richiesto, Mosè avrebbe ottenuto il perdono del Faraone che, pare, gli fosse molto affezionato. Ma forse in lui stava maturando quello spirito profetico che avrebbe informato tutta la sua vita: le ingiustizie, la corruzione, l’immoralità che regnavano in Egitto, soprattutto a corte, lo avevano certo profondamente colpito e ora aveva bisogno di un periodo di riflessione, lontano dal palazzo reale, perché la coscienza gli imponeva di rendersi conto di quale fosse effettivamente il proprio compito e il proprio ruolo nella vita.
Attraverso il deserto e si fermò a Midian dove prese le difese di sette pastorelle, figlie di Jetro sacerdote di Midian, dalla prepotenza di alcuni pastori. Dallo stesso Jetro fu invitato a fermarsi a lavorare presso di lui. Mosè divenne così pastore, e sposò una delle figlie del sacerdote midianita, Zippora.
Le due esperienze, quella di personalità di spicco alla corte di Faraone e quella di pastore a contatto con gente umile dedita al lavoro, furono fondamentali nella formazione del suo carattere preparandolo al suo futuro ruolo di capo, ma anche di padre e protettore del suo popolo.
Fu proprio durante il periodo in cui Mosè era pastore presso il suocero che “Dio udì i loro gemiti e vide i figlioli di Israele ed ebbe compassione della loro condizione” (es. 2, 24-25). Apparve perciò a Mosè in un roveto ardente che pur bruciando non si consumava, e gli ordinò di tornare in Egitto per “fare uscire” i figli di Israele dal giogo degli egiziani promettendogli che gli sarebbe sempre stato vicino, e che avrebbe inviato al suo fianco il fratello Aharon perché lo aiutasse.
Il Faraone non prese in nessuna considerazione la richiesta di Mosè di lasciare andare il popolo di Israele, nonostante questi avesse messo in guardia della potenza del “Dio di Israele”.
Si riversarono allora sull’Egitto dieci piaghe con effetti devastanti su tutto il paese: le acque del Nilo e di tutte le sorgenti dell’Egitto si trasformarono in sangue; seguì una invasione di rane, poi quella di una quantità di insetti dannosi. Sopravvenne quindi una invasione di ogni genere di bestie feroci che fece strage di uomini e di bestiame.
Invano lo stesso popolo egiziano chiese a Faraone di lasciar libero il popolo ebraico per ottenere cessazione dei flagelli: in un primo momento il Faraone premetteva di obbedire alla volontà divina ma, non appena la piaga cessava, si rifiutava di mantenere la promessa.
La gravità delle piaghe si fece sempre più intensa: gli egiziani furono colpiti dalla pestilenza, ricoperti di bubboni, investiti da terribili tempeste, invasi da una miriade di locuste e infine da una profonda oscurità che coprì per giorni e giorni l’Egitto senza mai lasciar spazio a uno spiraglio di luce.
L’ultima piaga fu terribile: l’angelo della morte, in una livida notte di terrore, si aggirò fra le case degli egiziani colpendone a morte tutti i primogeniti, anche quello di Faraone.
Il Faraone fu così costretto, infine, a dare agli ebrei il permesso di lasciare l’Egitto.
I figli di Israele, dopo aver consumato il sacrificio pasquale – un agnello col sangue del quale avevano segnato gli stipiti delle loro abitazioni per segnalarle all’angelo della morte che infatti “passò oltre” risparmiando i loro primogeniti – si affrettarono ad abbandonare l’Egitto così come era stato loro ordinato: “E mangiatelo in questa maniera: coi vostri fianchi cinti, coi vostri calzari ai piedi e col bastone in mano. Mangiatelo in fretta: è la Pasqua dell’Eterno” (Es 12,11).
Prima della loro partenza, gli egiziani offrirono agli ebrei doni in oro e argento, forse come risarcimento per il lavoro gratuito svolto per tanti anni. Gli Ebrei accettarono i doni e, come vedremo in seguito, fecero male.
L’Eterno ordinò che zevach pesach, il “sacrificio pasquale”, fosse consumato la prima sera di Pesach da tutte le generazioni future, perché mai gli avvenimenti di allora, così densi di significato e di insegnamenti, venissero dimenticati.
Ma gli ebrei dovevano aver costituito, durante la lunga permanenza nel paese, una colonna portante sia per il contributo di lavoro, sia per quello delle idee, visto che ancora una volta il Faraone si pentì della sua decisione: “Che cosa abbiamo fatto a lasciar libero il popolo di Israele che ora non ci servirà più?” (Es 14,5).
Alla testa del suo esercito li inseguì per riportarli indietro provocando al proprio popolo quella che potremmo definire l’undicesima piaga, quella che probabilmente è rimasta più famosa: l’apertura del Mar Rosso attraverso la quale gli ebrei raggiunsero salvi la riva opposta, mentre gli egiziani, che avevano tentato di attraversarla dopo di loro, furono inghiottiti dalle acque che si richiudevano e affogarono.

La durata della festa
Il 14 di Nissan veniva offerto il sacrificio pasquale al Tempio. Solo la sera, che per la tradizione ebraica è già il 15 di Nissan, inizia la festa vera e propria con una cerimonia speciale chiamata seder. In Israele Pesach dura sette giorni, fuori di Israele otto. Ciò è dovuto al fatto che, anticamente, nella diaspora, non era facile far pervenire tempestivamente l’esatta data delle ricorrenze; quindi, per evitare errori, le si faceva durare un giorno in più. L’uso è stato mantenuto, nonostante oggi non manchi la possibilità di comunicare tempestivamente la data di inizio della festa, per sottolineare la differenza tra coloro che vivono in Israele e coloro che ne vivono fuori.
Il calendario ebraico (…) è basato sui cicli della luna, non ci permette di fissare per le feste una data precisa nel calendario solare.

Riflessioni sul significato di “essere liberi”
La festa ha inizio al tramonto del 14 di Nissan, che corrisponde circa al mese di aprile.
Pesach, il momento in cui il popolo dei figli di Israele diviene il popolo libero, rappresenta per gli ebrei il simbolo della libertà.
Libertà: una parola difficile che si presta a molteplici interpretazioni e anche a più di un abuso.
La libertà può riguardare il singolo individuo, o interi popoli; può riguardare lo spirito o il corpo.
Esiste anche un concetto assai individualistico di libertà, intesa come possibilità di fare tutto quel che si vuole senza regole né limiti, indipendentemente dai diritti e dalla libertà degli altri.
In che modo ognuno di noi è responsabile della propria, o dell’altrui libertà? Fino a che punto e con quali modalità siamo tenuti a batterci per la nostra, o per l’altrui libertà, senza lasciarci prendere da un assurdo senso di orgoglio che può trasformarci in arroganti arbitri del comportamento altrui, o da un senso di opaca rassegnazione che, rimandando a Dio ogni responsabilità sul comportamento umano, ci consente di lasciare le cose come stanno senza partecipare personalmente alla liberazione di chi è schiavo e oppresso?
Schiavo o oppresso da chi, o da che cosa?
Esiste una libertà morale che coinvolge la nostra coscienza di essere creati “a immagini di Dio” e ci impone un totale rispetto verso noi stessi e verso gli altri. Ma esiste anche una libertà materiale, libertà dalla miseria e dal bisogno, che prevede il diritto a una vita decorosa e dignitosa quale patrimonio indispensabile perché ogni essere creato possa mantenere intatto il rispetto verso se stesso e, di conseguenza, verso il prossimo: ed è questo l’insegnamento base che troviamo nella Torah la cui consegna segue immediatamente l’uscito del popolo ebraico dall’Egitto proprio perché l’improvvisa libertà non degeneri in abuso o sopruso.
Cominciamo a scindere il problema in due parti: la libertà del corpo e la libertà dello spirito. La prima, se si affida unicamente all’istinto non illuminato della ragione e dall’insegnamento, e qui ci riferiamo proprio all’insegnamento della Torah, è paragonabile alla libertà degli animali non illuminati dal “discernimento fra il bene e il male”, e che seguono quindi soltanto il proprio istinto e i loro appetiti.
Ma è purtroppo propria anche di tanti uomini che hanno fatto della forza bruta, dell’imposizione indiscriminata della propria volontà su quella degli altri, che non solo è abuso, ma che si perde facilmente non appare all’orizzonte un uomo più potente e più prepotente.
La vera libertà è la seconda, quella spirituale. L’uomo, o il popolo, che l’abbia fatta propria, che l’abbia resa parte integrante di se stesso, è libero in eterno e nessuno, mai, potrà più renderlo schiavo. (…)

Perché il termine “Pesach” viene tradotto con “Pasqua”
Pesach deriva del verbo ebraico Pasoah che significa “passare oltre”, e si riferisce all’episodio terrificante in cui l’angelo della morte, durante la notte della decima piaga, si fermò nelle case degli egiziani colpendone tutti i primogeniti, ma pasach, “passò oltre”, le case degli ebrei sugli stipiti delle quali, in segno di riconoscimento, era stato spruzzato del sangue dell’agnello sacrificale.
Verso il VI secolo prima dell’Era Cristiana, in tutto il mondo mediorientale si diffuse una nuova lingua, l’aramaico. Molti fra gli stessi ebrei adottarono l’aramaico come lingua corrente, e in aramaico il termine Pesach è tradotto con Pascha. L’attinenza fra le due parole, Pascha e Pasqua, è evidente.

Come ci si prepara ad accogliere la festa
Ogni festa ebraica richiede un’accurata preparazione che coinvolge soprattutto la donna: ma quella di Pesach necessita di un impegno particolare.
E’ scritto: “Per sette giorni mangerete pane azzimo, ma prima che giunga il primo giorno toglierete dalle vostre case ogni lievito; osserverete quindi questo giorno in tutte le vostre generazioni” (Es 12, 15-17).
Per rivivere nel tempo il momento fatidico della loro liberazione dalla schiavitù e della loro nascita a popolo libero, gli ebrei mangiano tuttora ogni anno a Pesach, per sette giorni (fuori di Israele otto), il pane azzimo. E’ facile comprendere come l’ordine di eliminare dalla casa ogni tipo di sostanza lievitata imponga alla donna il dovere di compiere un’accuratissima pulizia della casa. Un impegno che peraltro le donne eseguono con entusiasmo e con estrema spolverando, lavando ogni recondito angolo dei mobili, dei ripostigli, e di tutta la casa, per prepararla a introdurvi il pane azzimo, cioè il pane non lievitato che in ebraico si chiama matzah.
La ragione per cui a Pesach gli ebrei mangiano pane azzimo è da rintracciarsi nel fatto che uscirono così frettolosamente dall’Egitto che non ebbero il tempo per fare lievitare il pane. Se poi esaminiamo la storia e gli usi dell’antico popolo di Israele, possiamo scoprire nel pane non lievitato significati assai più profondi e mistici: il pane azzimo era quello che il sommo sacerdote mangiava sull’altare durante i sacrifici. Secoli dopo divenne il pane comunemente usato dalla setta mistica degli esseni.
Evidentemente l’antica civiltà ebraica aveva un certo rifiuto per il lievito forse perché, essendo il risultato della fermentazione di un impasto di farina, gli faceva perdere le caratteristiche di un alimento puro, trasformandolo in cibo impuro: esso assume perciò nella concezione ebraica il simbolo di quel che non deve essere, in pratica simbolo del male. Interessante a questo proposito notare l’attinenza fra i nomi hametz, “cibo lievitato”, e hamas, “violenza”, quindi ingiustizia e immoralità. Il far scomparire dalla casa ogni genere di cibo lievitato va quindi interpretato anche come un invito a sgomberare il nostro animo da ogni tipo di hametz, o di hamas, da ogni residuo di odio, di rancore, di violenza, di corruzione, per presentarsi liberi e puri dinanzi al Signore, degni pertanto di offrire il zevach pesach, il “sacrificio pasquale” (che però dopo la distruzione del secondo Tempio non è stato più possibile compiere in forma concreta).
I Maestri della Mishnah, la legge orale che accompagna e completa la legge scritta, prescrivono inoltre che durante i giorni di Pesach, per evitare qualsiasi dubbio o possibile trasgressione, vengano usati stoviglie da tavola e recipienti da fuoco diversi da quelli del resto dell’anno; recipienti che vengono accuratamente conservati da un anno all’altro in un luogo in cui non abbiamo mai occasione di venire a contatto con i cibi proibiti di Pesach.
Per le donne, particolarmente per quelle strettamente osservanti, la preparazione del Pesach divenne quindi un impegno piuttosto gravoso e stressante anche in considerazione dei brevi tempi che intercorrono fra l’eliminazione del lievito e il cambio di tutte le stoviglie di Pesach. D’altronde proprio l’accuratezza di questo allestimento sottolinea il valore della festa.
Ma è fondamentale, a nostro avviso, ricordare che l’osservanza dei precetti non deve mai essere fine a se stessa correndo il rischio di trasformarsi in superstizione. Il suo vero scopo è quello di richiamare alla memoria l’importanza determinante di quanto la festa ci insegna.

Il Seder
La prima sera di Pesach (le prime dure sere fuori di Israele) le famiglie ebraiche si riuniscono intorno a un tavolo apparecchiato in modo particolare, per celebrare il Seder, una cerimonia durante la quale di legge la Haggadah, il racconto dell’uscita degli ebrei dall’Egitto, arricchito di midrashim (parabole) e commenti dei Maestri, e seguito da una cena che si conclude con canti corali di inni e melodie che si tramandano di generazione in generazione, di luogo in luogo.
(…) Il Seder è una cerimonia di alto valore pedagogico sotto molteplici aspetti. A ogni commensale, per sottolineare il senso della libertà appena acquisito, è permesso di sedere a tavola senza osservare le strette regole dell’etichetta: si possono appoggiare i gomiti sul tavolo, o sdraiarsi comodamente sulle seggiole, cose che i commensali adulti in genere, per vecchia abitudine, evitano di fare, ma che rende estremamente felici i bambini che assaporano a loro modo il primo senso di libertà.
Sul tavolo apparecchiato viene posto in cesto contenente tre pane azzimi (matzah), in ricordo del pane non lievitato mangiato nel deserto, una zampa d’agnello (pesach), in ricordo del zevach pesach, il sacrificio pasquale compiuto dal popolo che si accingeva a uscire dalla schiavitù, e dell’erba amara (maror), diversa a seconda delle tradizioni e della provenienza di chi celebra il Seder, in ricordo dell’amarezza patita dagli ebrei in schiavitù.
Il maror simboleggia forse il passo più importante verso la conquista della libertà. Dalle amarezze del passato, che lasciate fermentare, “lievitare” nell’animo e nel cuore, avrebbero potuto trasformare il popolo ebraico in un popolo crudele e vendicativo , è stato invece tratto un insegnamento basilare: è necessario affrontare la vita con una più consapevole e serena visione del rapporto fra gli uomini, è indispensabile volgere il cuore e l’animo con profondo affetto e comprensione verso i poveri, gli oppressi, i sofferenti.
Dalle amarezze della schiavitù è nato un inestinguibile odio per la schiavitù, la nostra, e quella di qualunque creatura, e un altrettanto inestinguibile amore per la libertà a cui ogni essere umano ha diritto e che, unica, permetterà ai figli di Israele anche in futuro di sopravvivere per adempiere alla missione.
Prima della distruzione del Tempio, ogni famiglia che andava in pellegrinaggio a Gerusalemme vi portava il suo agnello del sacrificio che poi veniva arrostito e mangiato. Ma da quanto il Tempio è stato distrutto e i sacrifici interrotti, i Maestri hanno deciso che, per ricordare la gravissima perdita, durante la cena di Seder non venga servito nessun tipo di carne arrostita.
Oltre a questi tre simboli di Pesach (pesach, matzah, maror), nel cesto vi è un uovo sodo, il charoseth, un impasto preparato anch’esso secondo ricette che variano a seconda delle tradizioni dei vari luoghi di provenienza, e che simboleggi la malta che gli ebrei schiavi erano costretti a preparare in Egitto per fabbricare i mattoni con cui avrebbero edificato la città del Faraone. Per il Seder però la malta si trasforma in un dolce impasto di frutti: datteri, noci, mandorle e altro per sottolineare la fine della schiavitù. Vi è poi del sedano (carpas), che deve essere intinto in acqua e sale, o in acqua e aceto: probabilmente una specie di aperitivo in vista della cena.
Sul tavolo viene posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla santificazione della festa attraverso il vino e il pane, un altro
bicchiere d’argento pieno di vino destinato al profeta Elia. La tradizione vuole infatti che il profeta, durante la prima sera di Pesach, si aggiri fra le case degli ebrei per portare i suoi voti augurali alle famiglie che celebrano il Seder, e ognuno spera di far parte dei privilegiati che riceveranno la sua visita.
La visita è tanto più attesa in quanto la tradizione afferma che sarà proprio il profeta Elia ad annunciare al mondo il giungere dell’Epoca messianica. E ogni ebreo vive la speranza che l’Epoca messianica, l’epoca della pace, dell’armonia, dell’amore fra tutti i popoli, sia proprio lì, dietro la porta di casa, porta che infatti, durante il Seder, viene lasciata aperta anche perché è detto: “chi vuole entri, mangi e celebri Pesach”.
Forse l’uso si riallaccia anche al Talmud in cui è scritto: “Nel mese di Nissan fummo redenti, e nel mese di Nissan siamo destinati a essere redenti” (Rosh ha-shanah 11).
Val la pena soffermarsi un momento sul significato dell’uovo sodo. Per l’ebraismo esso ha un valore tutto particolare. L’uovo è infatti il primo cibo che si offre a coloro che sono in lutto per la perdita di un parente stretto, in quanto è il simbolo della vita che si appresta a nascere, in opposizione alla morte. Perciò nel momento in cui il nostro animo è in preda alla disperazione e ci pare di non poter trovare né conforto né consolazione a una perdita irrimediabile, esso ci insegna che la vita che vive in noi è un dono che Dio ci ha concesso, e che in questo dono dobbiamo trovare la forza di continuare la nostra opera.
Inoltre l’uovo non ha spigoli, perciò non ha né un punto di inizio né un punto di fine. Così la sua rotondità, proprio nel momento in cui pare che con la morte sia tutto finito, ci ricorda che la vita è un ciclo che, come l’uovo, non ha né inizio né fine: chi dai propri cari ha ricevuto la vita e gli insegnamenti, chi lascia dietro di sé il dolore dei figli ai quali ha trasmesso la vita e gli insegnamenti, continua a vivere attraverso di loro.
Ed è questo il modo umano di conquistare l’eternità.
Il segno del lutto che noi aggiungiamo al festoso cesto del Seder, e che per tradizione viene consumato da tutti i primogeniti maschi (ma se anche altri ospiti vorranno associarsi, potranno farlo) è un triste ricordo degli innocenti figli primogeniti degli egiziani, vittime della cieca ostinazione del Faraone. Proprio per questa ragione è il primogenito ebreo che, per dimostrare il proprio dolore per la morte dei fratelli egiziani, usa mangiare l’uovo sodo.
Per la medesima ragione i maschi primogeniti, il giorno precedente il Pesach, fanno digiuno.
Dicevamo che il Seder è molto importante anche dal punto di vista pedagogico: dopo il Kiddush il primo intervento è riservato al commensale più giovane o, in coro, ai più giovani; si tratta del Mah nishtannah: “come è diversa questa serata da tutte le altre sere!”. Il canto è composto da quattro domande che il bambino rivolge agli adulti: “Perché tutte le altre sere mangiamo pane, e questa sera azzima? Perché tutte le altre sere mangiamo qualsiasi tipo di verdure, e questa sera erba amara? Perché tutte le altre sere non intingiamo (riferito al sedano intinto in acqua e sale o aceto) neppure una volta, e questa sera due volte? Perché tutte le altre sere mangiamo seduti, e questa sera sdraiati?”.
Le domande danno il via alle risposte, impartito attraverso la lettura della Haggadah che narra gli eventi miracolosi legati all’uscita dall’Egitto.
Durante il Seder si devono quattro bicchieri di vino in memoria delle quattro espressioni usate da Dio quanto preannuncia a Mosè la prossima liberazione del popolo: “li sottrarrò” dalle sofferenze dell’Egitto “; “li farò uscire” dal luogo di schiavitù; “li redimerò e li prenderò come mio popolo”. Esse rappresentano i vari stadi della libertà appena riconquistata che vanno elevandosi a sempre maggior livello fino a raggiungere la santità di “li prenderò come mio popolo” (Es 6,7).
La Torah aggiunge una quinta espressione: e “li farò entrare nella terra promisi ai loro padri” (Es 6,8). Non può esistere in effetti una completa libertà morale se non è legata a una libertà di comportamento, possibile solo in uno stadio proprio e indipendente.
Durante la lettura della Haggadah vengono nominate le dieci piaghe che hanno colpito l’Egitto e per ognuna di essa si versa un po’ di vino contenuto nel bicchiere in un recipiente: ciò sia per augurarci che queste disgrazie siano sempre lontane da noi e dalle nostre famiglie; sia per ricordare che nessuna gioia può essere completa se è costata lutti e dolori ad altri; sia, infine, per auspicare che mai più si ripeta una situazione in cui un popolo meriti di essere colpiti da tanti flagelli.
Un momento particolarmente interessante, e psicologicamente e pedagogicamente assai valido, è quello dedicato alla lettura del brano riguardante i “quattro figli”: il sapiente, il semplice, colui che non è capace neppure di domandare, e il figliolo cattivo.
I quattro figli rappresentano i vari tipi di cui l’umanità è composta e il testo della Haggadah ci fornisce importanti suggerimenti sul tipo di risposta da dare ad ognuno di essi.
Al saggio, cioè colui che pone una domanda acuta e complessa, si deve dare una risposta adeguata, dotta e approfondita, che non deluda né sottovaluti l’intelligenza e la capacità di apprendimento di chi domanda.
Al semplice occorre dare una risposta chiara e comprensibile per permettergli di capire pienamente il senso di quanto gli si sta spiegando, stimolandolo possibilmente a far nuove domande.
Particolarmente importante è l’insegnamento che viene impartito al figlio che non è in grado di porre domande; ci dice infatti la Haggadah: “A colui che sa domandare, aprigli tu la bocca!”. Importante notare che nella frase “apri tu”, il “tu” è espresso al femminile, “apri” al maschile. È la madre la prima insegnante del bambino, tocca quindi soprattutto a lei, fin dall’inizio, seguire con la massima attenzione il suo sviluppo mentale: ma è il padre che deve coadiuvare e sostenere sua moglie in questa opera. Se ne conclude che solo la collaborazione fra padre e mandre permette un normale, sereno sviluppo del carattere infantile.
Inoltre, se un bimbo si mostra totalmente disinteressato al mondo che lo circonda, non fa domande e non si pone interrogativi, se dà segno di isolarsi e di non partecipare in alcun modo alla vita attorno a lui, lungi dal rallegrarsi per il “buon carattere” del bambino che non disturba, “aprigli la bocca”, sollecita cioè la sua curiosità, coinvolgilo nei fatti che accadono per renderlo vivo, interessato e partecipe, aiutandolo quindi a crescere e a entrare in modo intelligente e attivo nella società.
Intrigante e piuttosto ironica è la risposta destinata a quel figlio che nella Haggadah viene nominato per secondo: il figlio “malvagio”, che forse rientra più nella categoria dei figli contestatari che in quella di veri e propri “cattivi”.
Egli chiede: “Che cosa significa questa cerimonia (il Seder) per voi?”; domanda in cui sottolinea: “Per voi, e non per me!”.
Si pone in questa maniera, con una certa arrogante superiorità, totalmente al di fuori del gruppo.
Suggerisce la Haggadah: “Tu rispondigli risentito (letteralmente “fagli digrignare i denti”); “Se tu fossi stato presente al momento della salvezza, non saresti stato salvato!”.
Una riposta apparentemente impietosa.
Ma riflettiamo sui motivi che spingono tante volte i giovani, e non sempre a torto, a contestare certi atteggiamenti, certi usi ereditati e forse non sufficientemente o logicamente spiegati. Nostro compito è quello di chiarire per dar loro modo di comprendere. Ebbene, con la frase incisiva “tu non saresti stato salvato” la Haggadah chiama il giovane a una responsabilità personale facendogli rivivere in prima persona, oggi, il momento drammatico della schiavitù. Ecco, gli dice la Haggadah, se tu, che adesso siedi con noi libero, e puoi parlare liberamente dell’epoca della schiavitù, tu che oggi contesti e rifiuti le responsabilità insite del passato, ti fossi trovato insieme ai nostri primogeniti a scegliere fra schiavitù e libertà, con tutte le responsabilità che tale scelta comportava, forse avresti vigliaccamente scelto di continuare a servire Faraone. In tal modo non avresti meritato la salvezza e oggi saresti ancora schiavo.
La Haggadah non accenna però all’esistenza di un quinto figlio; quello che non c’è perché si è staccato da ogni forma di tradizione e si è perso.
A qualsiasi tipo di domanda, anche a quella del contestatore, può essere data una risposta, risposta che può essere discussa, che può arricchire chi lo fa e chi la riceve con nuove interpretazioni non necessariamente in antitesi o in contrasto con quelle precedenti, ma persino innovative e progressiste.
Ma il figlio che non è presente è perso.
Il Seder finisce con una lunga serie di canti corali tradizionali composti da molte strofe, la cui caratteristica precipua è quella della ripetizione, alla fine di ogni strofa, di una frase: quella che tutti i commensali per tradizione conoscono meglio e quindi cantano a gran voce con grande entusiasmo.
In ultimo viene intonato il canto l’anno prossimo tutti a Gerusalemme, ricostruita, e viene distribuito l’afikomen, preparato nella parte iniziale del Seder, che simboleggia il sacrificio pasquale e che deve essere consumato quando si è già sazi.

Pasqua Cristiana

Le Origini della Pasqua

La data di questa festa varia. L'idea è di far coincidere la Pasqua la domenica successiva alla prima luna piena post equinozio di primavera. Questa regola proviene dalle decisioni prese durante il Concilio di Nicea del 325. Il periodo che precede la Pasqua è costituito da quaranta giorni di penitenza e dal trittico pasquale, in cui si celebra la passione di Gesù Cristo ebreo.

Etimologia

Si tratta di un termine arcaico, per ben comprendere la Pasqua, è indispensabile conoscere da dove prende origine questo termine e quale è il suo vero significato. Nella Sacra Scrittura, la parola Pasqua viene espressa con il termine:

Pesach, che vuole dire passare oltrepassare soprasaltare, per cui la Pasqua si identificherebbe con il modo di camminare degli agnellini appena nati. Il termine biblico Pasqua è stato messo in relazione ad una radice siriaca: Psch, sinonimo di essere contento, per cui la parola Pasqua avrebbe anche il significato di festa o celebrazione. Da altri è stata considerata un'origine egiziana molto simile alle origini citate precedentemente: Pash', che significa ricordo, per cui la Pasqua sarebbe il memoriale dell'esodo, e P'skh, che significa colpo ricorderebbe il colpo inferto da Javhè ai primogeniti egiziani.

Dalla parola Pesach il termine ebraico ha derivato fino a dare la parola italiana che conosciamo Pasqua

Per me Pasqua vuol dire Festa della Famiglia, una delle Feste familiari dell'anno, un appuntamento per riunirsi. Non ha per me più senso ripetere i riti per fatti accaduti millenni fa, come fanno gli ebrei, e mi spiace per la fine che fece Gesù Cristo, che i cristiani ricordano festeggiando la Pasqua, il quale lasciò un messaggio d'amore che, se seguito, può farci vivere meglio. Gli esseri umani hanno bisogno comunque di riti ed è bene che, chi crede, li compia.


Auguri a tutti

venerdì 26 marzo 2021

Delitto e castigo: rilettura a distanza di oltre mezzo secolo..


Credevo di aver letto "Delitto e Castigo" intorno ai miei vent'anni, finché non ho deciso di rileggerlo acquistando un'edizione in cui è scritto integrale.

Ho scoperto così che quella che lessi più di 50 anni fa era un'edizione non completa dell'Opera. Era un libro con la copertina di cartone su cui spiccava un disegno a colori che voleva riprodurre Raskolnikov, il protagonista, vestito alla russa con un copricapo dalla visiera rigida e con la classica casacca con la cintura in vita, un po' come il disegno della copertina di questa vecchia edizione che qui riproduco:

solo che qui è disegnata la scena di Raskolnikov in riva al fiume, quando già sta in Siberia nel bagno penale, con accanto Sonia che lo ha raggiunto e siede con lui in un momento di pace grazie ad una momentanea distrazione della guardia, mentre nel disegno del libro che io lessi in gioventù  Raskolnikov era raffigurato nel momento in cui compie il suo delitto, con la scure insanguinata in mano e l'usuraia colpita a morte, mentre sullo sfondo appare Lizaveta sulla scena del delitto.

Non so perché, forse perché l'edizione non era integrale e forse anche per la mia giovane mente, avevo riportato da quella lettura l'orrore per il delitto ma anche una pena per il povero studente che l'aveva commesso, per la sua estrema povertà, per il fatto che non poteva neppure pagare l'affitto, mentre l'usuraia gli centellinava pochi soldi in cambio degli oggetti che egli non aveva quasi più da impegnare.

Quel libro, che forse trovai nella casa dei miei suoceri, andò distrutto in quanto era in carta economica e i fogli legati tra di loro con il filo ed incollati alla copertina di cartone. Una rilegatura economica che si chiama brossura filo refe e che oggi è diventata costosa e si consiglia solo per libri di pregio.

Così ho ricomperato l'Opera integrale che consta di ben 636 pagine. Ho letto tutto il romanzo con grande piacere, scoprendo quanto sia moderno ed attuale, anche nello stile della scrittura, Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Di lui ho letto "Il Giocatore", "L'idiota", i racconti ed altro, e già conoscevo la potenza e la bellezza della sua scrittura ma, forse sarà per l'età matura e la tanta esperienza di vita, in questo libro ho scoperto un'analisi psicologica e a tratti psichiatrica che anticipano Freud. 

Oltre questo ho scoperto in me stessa una condanna totale del protagonista: Rodiòn Romànovič Raskòl'nikov, un nevrotico, egoista, lucidamente folle nelle sue teorie disumane sull'uomo speciale che si erge al di sopra della morale comune, quella che seguono gli uomini ritenuti da costui mediocri, pidocchi, per cui egli può decidere di uccidere senza umana pietà.

E uccide la vecchia vedova usuraia colpendola con una scure al capo ed anche la sorellastra di lei, una donna mite, solo perché arrivata inaspettatamente sulla scena dove egli ha appena compiuto il delitto.

Un personaggio che potrebbe benissimo essere dei giorni nostri, in cui delitti atroci vengono commessi con lucida follia e senza alcun pentimento. 

Ben diverso dunque mi è apparso il protagonista e non capisco come mai ne avevo un ricordo pietoso.. Questo studente fallito potrebbe guadagnarsi da vivere dando lezioni, ha un amico puro e sincero che gliele procura anche, ma il suo orgoglio non si piega alla necessità che tutti noi nella vita umilmente affrontiamo, lui preferisce odiare l'usuraia, che non è una bella figura umana ma è come tanti misera e meschina, cattiva anche perché maltratta la buona Lizaveta che vive con lei, ma non per questo merita di essere uccisa.

Come gli assassini della cronaca attuale mente, teme vilmente di essere scoperto, dimostrando così che le sue elucubrazioni, in cui si crede un superuomo al di sopra della morale comune, sono solo follie e lui è solo un miserabile verme.

Un verme fortunato che deve scontare solo sette anni per un duplice omicidio, ed anche in questo il romanzo è attualissimo, ed è soprattutto fortunato per l'amore puro che non merita della povera Sonia, lei si peccatrice, ma come agnello sacrificale per dare agli altri; in questo caso ad una matrigna e ai suoi piccoli sfortunati fratellastri a causa di  un uomo indegno, suo padre, che beve e gioca riducendo la sua famiglia nel degrado, fino al punto da accettare che sua moglie tisica e sconvolta dagli stenti dica alla povera Sonia di buttarsi in strada a prostituirsi per portare soldi per sfamarli tutti.

Eppure il moralista Raskolnikov, che odia l'immorale usuraia, prova comprensione e pietà per Marmeladov, lo squallido padre di Sonia, incapace di mantenere la sua famiglia perché si beve e gioca tutti i soldi e in modo abietto accetta quelli della prostituzione della innocente figlia di primo letto.

Una psicologia singolare davvero questo Raskolnikov.. Eppure Freud ancora non aveva scritto le sue Opere...

Il genio di Dostoevskij anticipa l'analisi scientifica freudiana.

Colpisce, nelle ultime pagine, il racconto di un sogno fatto da Raskolnikov ormai nel bagno penale dei lavori forzati in Siberia: "...tutto il mondo era condannato ad esser vittima di un'epidemia letale spaventosa, inaudita e mai vista, che avanzava verso l'Europa dalle profondità dell'Asia."


Dante Alighieri: il mistero della scomparsa di ogni suo scritto autografo

Nella ricorrenza della celebrazione dei 700 anni dalla morte di Dante viene fuori la notizia, conosciuta dagli studiosi, che di Dante non esiste alcuno scritto autografo.

Non soltanto le opere letterarie scritte di suo pugno, ma nemmeno una lettera autografa..

Questo è un vero giallo incomprensibile alla luce di varie riflessioni storiche.

Il più antico ritratto documentato di Dante Alighieri conosciuto, Palazzo dell'Arte dei Giudici e NotaiFirenze. Databile intorno al 1336-1337, l'affresco è di scuola giottesca ed è il ritratto iconografico del poeta più vicino a quello ricostruito nel 2007 grazie a una squadra guidata da Giorgio Gruppioni, antropologo dell'Università di Bologna. Si riuscì a realizzare un volto i cui tratti somatici corrisponderebbero al 95% a quello realeNel 1921, in occasione del seicentenario della morte di Dante, l'antropologo dell'Università di Bologna Fabio Frassetto fu autorizzato dalle autorità a studiare il cranio del poeta, risultato mancante della mandibola.Partendo dal cranio ricostruito dallo studioso Frassetto nel 1921, il volto reale di Dante è risultato (grazie al contributo del biologo dell'Università di Pisa Francesco Mallegni e dello scultore Gabriele Mallegni) sicuramente non bello, ma privo di quel naso aquilino così accentuato dagli artisti di età rinascimentale e molto più vicino a quello, risalente pochi anni dopo la morte del poeta, di scuola giottesca.


Dalla data più o meno presunta della sua nascita, 1265, fino a quella più certa della sua morte, 1321, chi sapeva scrivere ha lasciato degli scritti autografi, magari frammenti per la deteriorazione delle pergamene in uso a qual tempo, ma qualcosa è rimasto: di Dante nulla!

Ma vediamo come era la situazione storica della scrittura del tempo.

La carta in uso, oltre la pergamena, era la Carta Amalfi o Charta Bambagina: introdotta in Italia dal mondo arabo e successivamente prodotta nelle cartiere italiane. Questa carta ebbe innovazioni e siccome Fabriano, nel XIII e nel XIV secolo, aveva acquistato l’egemonia dei mercati, su base di argomentazioni storiche si ipotizza che Dante Alighieri possa aver usato tale carta per scrivere le sue opere.

La carta di Amalfi deve il suo secondo nome, Charta Bambagina, al particolare procedimento di produzione, che, prescindendo dall’utilizzazione della cellulosa ricavata dal legno, parte da raccolte di cenci e stracci di lino, cotone e canapa di colore bianco. Le stoffe erano ridotte in poltiglia per mezzo di magli chiodati mossi da mulini a propulsione idraulica mentre oggi, con macchinari più sofisticati, ha  una maggiore raffinatezza. La fibra, disciolta nell’acqua è trasformata, a mano, in fogli per mezzo di telai formati da fili di ottone e bronzo. Questo supporto per la scrittura apparve subito molto più pratico della pergamena fatta di pelle essiccata per trascrivere le transazioni soprattutto da parte dei mercanti. Perché più leggera, più maneggevole, più leggibile con addirittura la possibilità di far apparire in filigrana il nome del produttore o delle famiglie che l’avevano ordinata. Questa carta fu, per un breve periodo, proibita per gli atti notarili nel 1220 da Federico II in quanto meno duratura della pergamena.

I fogli di Carta di Amalfi più antichi risalgono al XIII e XIV secolo.

Proprio il periodo in cui visse Dante. Dunque se quei fogli sono arrivati fino a noi non può essere l'eventuale uso di quel tipo di carta che ha provocato la sparizione dell'intera opera autografa di Dante. Si può ipotizzare che in parte può essersi dissolta, ma che non sia rimasto nemmeno un frammento, neppure di una lettera, è non spiegabile.

Quello che rimane a noi oggi di più antico è la versione della Divina Commedia trascritta  dal copista Antonio da Fermo ritrovata a Genova nel 1336 . Oggi quel manoscritto in pergamena è conservato a Piacenza presso la Biblioteca Comunale Passerini Landi ed è per questo chiamato “Manoscritto Landiano”.

Ma come arrivavano le opere letterarie alla gente? Attraverso i codiciin epoca medievale con l'istituzione di vere e proprie scuole di scrittura i codici furono scritti prevalentemente da monaci; famose sono le sale chiamate scriptoria all'interno di conventi e abbazie in cui venivano copiati e decorati.

Il codice è il libro come lo conosciamo oggi, un insieme di fascicoli legati fra loro e magari chiusi tra due copertine.


Esempio di codice decorato risalente fra il 1220 e il 1250, poco prima della nascita di Dante Alighieri.

Si tratta di un manoscritto de La canzone dei Nibelunghi in tedesco del tempo.


Tornando dunque sugli scritti di Dante, dell'intera sua opera, rimane il mistero della totale assenza di un suo scritto autografo. Neppure della sua provata attività politica vissuta dolorosamente in esilio presso le corti di Signori del tempo che si servirono di lui anche come ambasciatore.


 

venerdì 19 marzo 2021

Per ridere un po': Le comiche: "Covid nelle cabine elettorali"

 


"Covid nelle cabine elettorali"




"sou uma cabina eleitoral portuguesa"







"Ik ben een Nederlandse stemstand"









"Sie sind eine deutsche Wahlkabine"





"Sono una cabina elettorale italiana...

Beate voi che non siete infettate dal covid...

הם דוכן-בחירות ישראלי


"Sono una cabina elettorale italiana...
Ma... pure voi in Israele votate? Ma la pandemia c'è in tutto il mondo... Israele pure.. Ma.. allora.. Solo in Italia non si vota per il Covid?


sabato 13 marzo 2021

Benno Reumair criminale o pazzo

Rita Coltellese *** Scrivere: Tristezza infinita e orrore












IMMAGINI DI BENNO REUMAIR


Ed ha confessato alla fine Benno Reumair di aver ucciso prima il padre poi, appena rientrata, la madre.
Ha confessato di aver strangolato anche il padre e di averne gettato il cadavere nell'Adige.
L'orrore che ha destato porta giornalisti, esperti e commentatori televisivi vari a iniziare dibattiti in cui si cercano risposte che possano placare l'insicurezza in cui delitti di questa portata gettano le gente. Ci si chiede se sia pazzo e se il fatto che gli era stato fatto un TSO in Germania, da cui era scaturita una diagnosi di schizofrenia paranoide, potrà renderlo non punibile. Fatto che indigna chi vorrebbe per lui una punizione totale, commisurata all'orribile gesto che ha compiuto: uccidere due genitori che lo amavano, che si preoccupavano per lui, incitandolo a vivere come deve vivere un uomo di 30 anni, prendendosi la responsabilità della sua vita, per poi disfarsi dei corpi con lucido cinismo.
E' proprio questa lucidità che spinge i fautori della massima punizione a ritenere quella diagnosi  fattagli in Germania forse frutto di un fatto acuto e momentaneo, e che dunque egli meriti l'ergastolo.
Debbo dire che personalmente penso che debba stare o in carcere o al manicomio criminale il più a lungo possibile.
Nei dibattiti televisivi ho sentito altre persone dire quello che penso anch'io. Ad esempio un avvocato, sempre presente nella trasmissione "Quarto Grado" condotta dal giornalista Nuzzi, ha detto chiaramente che va punito e che appare evidente, anche nei filmati in cui i giornalisti lo andavano ad intervistare nei giorni successivi alla scomparsa dei due poveri genitori, che risponde con lucida ed intelligente abilità fingendo con disinvoltura.
Non si sa cosa farà la giustizia italiana con le perizie psichiatriche che sicuramente i suoi avvocati presenteranno. Di certo negli USA ad esempio, psichiatria o meno, verrebbe punito in modo duro come merita.
Intanto la gente si confronta e litiga, anche.
Ho letto che fra Roberta Bruzzone e Simona Izzo sono volate frasi pesanti durante uno di codesti dibattiti televisivi, giacché Bruzzone rivendicava una competenza professionale che la regista Izzo non ha nel valutare questo duplice assassino.
Ma anche sui social la gente comune si chiede se, vista la diagnosi del TSO, si poteva fare qualcosa per evitare questa tragedia.

Purtroppo della malattia psichiatrica si sa poco e tutti parlano senza capire.
Non sono Psichiatra, ma ho conosciuto persone con diagnosi di schizofrenia che non hanno mai fatto male a nessuno... Dunque perché mai averne paura, confinarli preventivamente? 
Penso invece che i delitti li compiono persone come Benno sia che abbiano avuto diagnosi di schizofrenia che non... Sono personalità criminali, che possono avere o non avere anche alterazioni della sfera psichica.
La lista di coloro che hanno ucciso i genitori è lunga, e non avevano avuto in precedenza né TSO né diagnosi di schizofrenia...
Pietro Maso e la quindicenne Erika De Nardo non vi dicono niente?
Negli USA avrebbero dovuto scontare decenni di carcere duro: in Italia già sono fuori entrambi da un pezzo.
Pietro Maso - Come è nello stile della "giustizia" italiana non ha fatto tutti gli anni di carcere comminatigli in sentenza. L'immagine mostra che ha avuto copertine di giornali e sul web si apprende di sue partecipazioni televisive. Naturalmente tutto remunerato.
Il suo avvocato informa che si è disintossicato dalla cocaina...

 

Erika De Nardo
 Anche lei non ha finito di scontare la leggera pena inflittale. I giornali informano che si è sposata.