venerdì 16 marzo 2018

16 marzo 1978

Da: La Repubblica articolo di Katia Riccardi 16 marzo 2018

Sono passati quarant'anni dal rapimento del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte di un commando delle Brigate Rosse, che uccise i cinque componenti della scorta: sulle note del Silenzio, Mattarella ha deposto una corona dai colori bianco rosso e verde sul nuovo monumento dedicato all'appuntato dei carabinieri, Domenico Ricci, che guidava la Fiat 130 dell'onorevole Moro, al maresciallo Oreste Leonardi, il capo scorta, e agli agenti di polizia Giulio Rivera, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino. Questo giorno è dedicato a loro, a uomini morti facendo il proprio lavoro. Eroi da non dimenticare, vissuti in anni di piombo.

Quel giorno in via Fani c'era un commando di brigatisti, terroristi e criminali. Scrivere 'dirigenti della colonna delle brigate rosse' è un pugno allo stomaco. Chi ha ucciso, gli assassini.. questi 'signori', erano delinquenti due volte. Non solo uccidevano e rapinavano ma cercavano in una logica di morte di sovvertire le istituzioni democratiche del nostro Paese", ha detto il prefetto Franco Gabrielli. "Oggi riproporli in asettici studi televisivi come se stessero discettando della verità rivelata credo sia un oltraggio per tutti noi e soprattutto per chi ha dato la vita per questo Paese", ha spiegato, chiedendo che si ritorni a riconoscere l'importanza di una linea più netta, e più semplice, quella che divide bene e male, che definisce giusto e sbagliato.




Meno male che quello che penso io l'ha detto il Prefetto Gabrielli. Le menti deboli, a sentire parlare con tanta tranquillità, disinvoltura e nessun pentimento, oltre che nessuna VERA PENA PER QUELLO CHE HANNO FATTO, i brigatisti rossi assassini, possono introiettare il concetto di una normalità che NON ESISTE.
In radio, stamane, ho sentito fugacemente una trasmissione in cui potevano intervenire gli ascoltatori e una signora stava dicendo che la televisione, dando voce e visibilità agli assassini, ha influenzato ed influenza la gente facendo di queste figure negative quasi degli eroi. La conduttrice trovava giusta l'analisi, ma rispondeva che la Società, attraverso le sue Istituzioni, deve trovare gli anticorpi per reagire con il rifiuto e il giudizio negativo contro l'accettazione e la normalizzazione di quello che una Società deve rigettare per dirsi sana.

Io quegli anni, definiti giornalisticamente "di piombo", li ho vissuti e il rapimento Moro, con l'uccisione dei 5 uomini dello Stato che costituivano la sua scorta, è stato l'acme di qualcosa iniziato molti anni prima: nel 1968.
Non mi sembravano anni in cui si viveva male, tanto è vero che ci fu il boom delle nascite, come ricordano i cronisti e gli storici anche oggi. 
In quegli anni ho messo al mondo i miei tre figli. In quegli anni mio marito, che aveva lavorato in fabbrica studiando all'Università, poté decidere di lasciare la fabbrica per un contratto a termine di Ricercatore Universitario. Certo l'Università pagava poco, oggi i Ricercatori Universitari vengono pagati bene. Ma era questo motivo sufficiente per dire che chi ci governava meritava il piombo? 
Non esistevano i Corsi per gli studenti lavoratori, ma mio marito è riuscito a laurearsi lo stesso lavorando con sacrificio, impegno e tenacia.
I "rivoluzionari", che beffeggiavano chiunque non girasse in eschimo e con i capelli lunghi, studiavano, fra una manifestazione e l'altra, mantenuti agli studi dai papà!
Che strana contraddizione! Avrebbe dovuto odiare il sistema mio marito che si alzava alle 5 e faceva ora tarda la sera per studiare e dare esami! Lui si pagava gli studi da solo e dava anche un aiuto economico al padre, al contrario di chi, mantenuto dal papà, poteva perdere tempo nelle manifestazioni di piazza, anche violente, dando esami ogni tanto...
Quel sistema Italia ha consentito, a chi aveva volontà e capacità, di laurearsi lavorando.
Ma i figli di papà attiravano pure operai che, come Leonardo Marino, hanno capito solo dopo quanta dignità e sicurezza aveva quel posto di operaio alla FIAT. L'ha capito quando si è ritrovato, con la coscienza sporca del sangue del Commissario Calabresi, al freddo a vendere frittelle in un baracchino, mentre l'intellettuale in eschimo che aveva seguito, "passata la buriana", stava sempre a galla, grazie agli amici giornalisti che gli davano voce e possibilità di scrivere sui giornali che dirigevano...
Nei luoghi di lavoro, statali, dove lo stipendio era garantito, tecnici e operai ritenevano giusto non fare più il loro dovere, lo stipendio era dovuto, si atteggiavano a rivoluzionari anche se non facevano parte di particolari organizzazioni tipo Lotta Continua o Potere Operaio. Chi osava richiamarli alla dignità di guadagnarsi lo stipendio veniva dileggiato, chiamato fascista, anche se quello non lo era neppure lontanamente. Mentre proprio quel modo di fare anarchico e gaglioffo, discriminatorio e minaccioso aveva qualcosa di fascista.
Dunque nella vita minuta, chi non riteneva giusta questa deriva, ha vissuto male quegli anni, assistendo anche ad una vigliacca non reazione da parte di chi avrebbe dovuto reagire.
Ho descritto nel mio libro "Il Romanzo dell'Università" quello che ho vissuto dentro l'Università con sconcerto ed indignazione: gente sporca e nullafacente che, con la violenza, imponeva a professori umiliati di scrivere 30 sul libretto per un esame inesistente. E si trattava del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia!
Ricordo che telefonai al Direttore giornalistico del Quotidiano "Il Popolo", con cui avevamo amicizia, chiedendo se si poteva pubblicare quello che stava accadendo dentro "Sapienza" e come mai il Rettore o il Preside di Facoltà non chiamassero la Polizia.
Mi rispose che quello che stavo vivendo era ormai ovunque, mi citò altri luoghi in cui occupavano le Università e che i Presidi e i Rettori avevano paura. Dunque, pensai, nemmeno più la Polizia può garantire l'ordine? E questi hanno paura di essere ammazzati, nel caso migliore gambizzati!
Pochi giorni dopo rapirono Moro e trucidarono 5 uomini che stavano facendo il loro lavoro. 
In quei giorni cominciò un carosello che anch'io, che non amo le dietrologie e mi picco di essere estremamente pragmatica, trovai strano per molti aspetti.
Roma era blindata. Io giravo in auto con i miei tre bambini per qualsiasi cosa li riguardasse o riguardasse i miei doveri di figlia unica di una madre vedova, che aveva solo me per qualunque cosa di cui avesse bisogno. Venivo fermata da Carabinieri con il mitra pronto e mi chiedevano i documenti, mentre i miei bambini, seduti dietro, guardavano allarmati il mitra puntato verso il finestrino. Ricordo che, mentre mi chinavo verso il cruscotto per tirare fuori i documenti dell'auto o frugavo nella borsa per cercare i miei, mi auguravo che il giovane Carabiniere non fosse troppo nervoso ed inesperto da far partire un colpo, dato che avevo letto sui giornali che uno, per nervosismo, si era sparato per sbaglio su un piede facendo partire un colpo...
Avevo 32 anni e ne dimostravo di meno, ero magra e con i capelli lunghi e bruni.. Avevo forse la physique-du-role della brigatista.. Perché mi hanno fermato più di una volta, nonostante i bambini che erano sempre con me, non avendo alcuno a cui poterli lasciare se non quando andavano a scuola.. 
Nelle ricerca affannosa del covo dove i brigatisti tenevano rinchiuso Moro perquisirono molte abitazioni a caso. Una mia amica, che abitava alla Balduina, mi disse che erano andati anche a casa sua e lei temeva che portassero via il marito, anche lui con la physique-du-role del brigatista perché aveva la barba...
Cominciammo fra noi a pensare ad una esagerata messa in scena con questi fermi e perquisizioni fatte a vanvera. 
Finché un giorno, in Via Livorno dove mi ero recata per andare a prendere a scuola il mio figlio più piccolo, dovetti accostare per un corteo di auto con luci lampeggianti e sirene accese che correva velocissimo in discesa: seppi poi che correvano al Lago della Duchessa, giacché qualcuno aveva informato la Polizia che il cadavere di Moro era lì. Quando seppi dove era questo Lago, mai sentito prima, chissà perché pensai ad una messa in scena..
Tutto sembrava troppo rumoroso ed esagerato e, mentre la città appariva blindata e noi, persone normali, avevamo difficoltà a muoverci, un brigatista sfidava il destino e se ne andava a spasso per il centro di Roma, in vie dove ti fermano i Vigili Urbani per qualsiasi inezia, con una utilitaria di colore rosso nel cui portabagagli trasportava il cadavere di Moro. Non solo: costui trovava pure un parcheggio in Via Caetani, in pieno centro, dove è quasi impossibile, dove devi girare anche un'ora senza trovarlo e devi rassegnarti a parcheggiare lontano dal luogo che ti prefiggi!
Ma lui no! Mario Moretti, colui che fu dichiarato poi il Capo delle Brigate Rosse, colui che si è attribuito l'atto omicidiario di sparare ad Aldo Moro, riuscì a parcheggiare bene e subito. Tanto è vero che per far ritrovare il cadavere dello statista dovette telefonare, altrimenti la Renault, parcheggiata così bene, poteva restare lì ancora chissà per quanto tempo, odore di putrefazione a parte...
E' proprio il senso della realtà che evidenzia la stranezza del tutto.

Poi scoprimmo che una collega di mio marito aveva ospitato "senza saperlo", disse ai giudici che le credettero, Morucci e la Faranda, rispettivamente assassino della scorta di Moro e carceriera dello statista. Disse ai giudici, che le credettero, "di non sapere che in casa sua, in un soppalco, c'era custodita la mitraglietta Skorpion che aveva ucciso Moro".


I quattro brigatisti che, travestiti da assistenti di volo, spararono sulla scorta:Valerio Morucci «Matteo», Raffaele Fiore «Marcello», Prospero Gallinari«Giuseppe» e Franco Bonisoli «Luigi».




La casa dove questa donna viveva con i figli fu definita dai giornali "Il covo di Viale Giulio Cesare".



Sono cresciuta in Prati, quartiere allora della media borghesia romana, in Via Ottaviano, quasi all'angolo con Viale Giulio Cesare. A quei tempi era un quartiere tranquillo...

Ero giovane ed ero sbalordita. Pur avendo conosciuto fugacemente quella donna ad un cocktail-party, che il Prof. Livio Gratton aveva dato per dei Fisici statunitensi e le loro mogli, insieme a tutti i Fisici del Laboratorio di Astrofisica Spaziale del CNR di Frascati, e sapendo delle sue idee di estrema sinistra, mai avrei immaginato un simile coinvolgimento.

Di mezzo c'era un altro Fisico di Potere Operaio, Franco Piperno, che, disse, le aveva presentato Morucci e la Faranda chiedendole di ospitarli.




Da: Wikipedia

  • Adriana Faranda: arrestata nel 1979, è tornata in libertà nel 1994 dopo essersi dissociata dalla lotta armata. Non è stata accertata in sede giudiziaria la sua presenza in via Fani, è stata la «postina» del sequestro Moro con Valerio Morucci.
  • Valerio Morucci: arrestato nel 1979 venne condannato a 30 anni dopo essersi dissociato dalla lotta armata. Rilasciato nel 1994, si occupa di informatica. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro e durante il sequestro è stato il postino delle Brigate Rosse insieme con la sua compagna Adriana Faranda.
  • Mario Moretti: catturato nel 1981 e condannato a 6 ergastoli. Dal 1994 è in semilibertà e lavora da oltre 14 anni per la Regione Lombardia. Capo della colonna romana delle Brigate Rosse, in via Fani era alla guida dell'auto che ha bloccato il convoglio di Moro e della scorta avviando l'imboscata. Nonostante alcune testimonianze oculari, non è stata accertato in sede giudiziaria che abbia sparato. Durante il sequestro occupava con Barbara Balzerani il covo di via Gradoli 96 e si recava quotidianamente a interrogare Moro nel luogo della sua detenzione e periodicamente a Firenze e Rapallo per riunioni con il comitato esecutivo dell'organizzazione terroristica.


Queste le punizioni agli assassini e ai carcerieri. Nessuno di loro si è pentito delle proprie azioni.

Franco Piperno è diventato Professore Associato all’Università della Calabria Arcavacata
Da: Wikipedia

È stato professore associato confermato (II fascia) di Fisica della materia presso l'Università della Calabria.
Fu condannato a due anni di reclusione per partecipazione ad associazione sovversiva nel processo 7 aprile, con pena prescritta.[1]

Giuliana Conforto, proprietaria del "covo di Viale Giulio Cesare"
l'appartamento di via Gradoli presenta alcune peculiarità. Innanzitutto fu affittato da Moretti sotto lo pseudonimo di Mario Borghi nel 1975, ma il contratto d'affitto tra «Borghi» e la controparte Luciana Bozzi non venne registrato. La signora Bozzi si scoprirà successivamente essere amica di Giuliana Conforto, nel cui appartamento furono arrestati i brigatisti Morucci e Faranda. 
Da: Il Fatto Quotidiano articolo di Stefania Limiti del 28 aprile 2016
La proprietaria dell’appartamento-covo, Giuliana Conforto, è figlia di Giorgio, classe 1908, nome in codice Dario, spia del Kbg per quarant’anni. Personaggio complesso e davvero misterioso, tanto da sembrare una invenzione per un film sulla guerra fredda piuttosto che uomo in carne ossa. Conforto fu burocrate ministeriale ma anche ”il più prezioso agente” del Kgb in Italia, come lo definì Christopher Andrew, l’autore di The Mitrokhin affair. Come accade per molte spie, gli venne costruita una identità che lo metteva al riparo da sospetti: a questo fine fu informatore dell’Ovra, la polizia politica fascista. Il suo ruolo divenne pubblico solo nell’ottobre del 1999, con la pubblicazione dei nomi di persone sospettate di essere al soldo dell’intelligence sovietica: seguì la tessitura di ipotesi alquanto incerte sul suo intervento in quel giorno di maggio. Perché Giuliana fu subito scagionata? Perché sul conto del suo importante padre non trapelò nulla al tempo del blitz, nonostante gli archivi del Viminale custodissero il suo nome? Che trattativa fu imbastita tra Conforto e lo Stato? Quale scambio fu concordato?


Aldo Moro era di gusti semplici. Una mia amica di Torrita Tiberina, una volta che fui sua ospite in quel paese dove Aldo Moro andava in vacanza tutti gli anni con la sua famiglia, ricordandolo con sincero dolore e tristezza mi disse: "Prendevano in affitto una casa senza neppure i riscaldamenti. Anche d'estate possono esserci giorni di pioggia, freddi, soprattutto verso la fine di agosto.. Qui gli volevano bene tutti."

La morte di Moro non colpì solo il sistema politico italiano. Anche l'apparato industriale pubblico subì le conseguenze della fine del Presidente democristiano. L'industria di Stato, rinata nel dopoguerra in virtù di un compromesso tra democristiani e sinistra, raggiunse grandi dimensioni e diede un forte contribuito allo sviluppo del Paese. Dopo il 1992 fu smembrata e venne ceduta in gran parte alle banche d'affari internazionali.