venerdì 27 luglio 2018

Susanna Tamaro

Susanna Tamaro: “Sono cattolica, ma super laica e detesto i buoni sentimenti”

di Antonio Gnoli 14 novembre 2011


Incontro con la scrittrice di “Va’ dove ti porta il cuore” ora in libreria con un romanzo e una raccolta di saggi.
“Il successo per me è stato peggio che essere investiti da un tir. Trovarmi al centro di quella storia mediatica mi ha sconvolta”.
Orvieto. I due nuovi libri di Susanna Tamaro – un romanzo apparso qualche mese fa con il titolo Per sempre (Giunti) che veleggia verso le 300 mila copie, e una raccolta di saggi L’isola che c’è (edizioni Lindau) – compendiano piuttosto bene questa figura di scrittrice che ha la caratteristica di essere insieme molto amata e molto odiata. A me, confesso, incuriosisce la sua prosa, il suo stile pulito e all’apparenza semplice, il suo successo nutrito di alti e bassi, gli argomenti che sceglie e riconduce a uno schema piuttosto semplice: di qua c’è la natura con i suoi pregi e i suoi misteri, di là c’è l’uomo con le sue ambasce e contraddizioni.
Vado a trovarla a Porano, dove vive in una casa di campagna a pochi chilometri da Orvieto. Mi viene a prendere alla stazione. È una donna minuta ma solida, quella che incontro. Si intuisce che fa molta vita all’aria aperta. Solita capigliatura corta, soliti occhialini che fanno da contorno a un abbigliamento un po¿ maschile. Dice che non ama guidare per qualche problema alla vista. Dice che ha cinque cani, tra cui un temibile “bovaro delle Fiandre”. Dice che in Olanda lo usano negli stadi dove il tifo è più acceso. Mi preoccupo. Dice che il caldo consente raccolte nell’orto impensabili a novembre. La casa di campagna ha diversi spazi autonomi. Mi guida verso uno di essi, una piccola abitazione nella quale, apprendo, è vissuto il padre. L’ambiente è piccolo, ma confortevole. Una libreria. Un divanetto. Due poltrone. Un cucinino. La stufa a legna diffonde un caldo eccessivo. Mentre prepara un caffè, i cani fanno irruzione: scodinzolano, perfino il “bovaro” sembra assumere un’aria mite e giocosa. Per essere una scrittrice che ha venduto con Va’ dove ti porta il cuore 15 milioni di copie, non sembra troppo compresa di sé.
Che cosa le ha provocato il successo?
«Peggio che essere investiti da un tir. Mi ritengo una persona timida, riservata, fragile, come lo sono gli artisti. Trovarmi al centro di una storia mediatica, più grande di me, è stato sconvolgente. Il successo spinge a inseguire altre chimere, anche la creatività può cambiare. Ma io mi sento una persona anarchica, solitaria, lontana dal potere, anche letterario, che quel successo mi avrebbe dato. Desideravo solo continuare a scrivere e fare la mia vita. E penso di esserci riuscita, di essermi salvata sia umanamente che creativamente».
Lo dice come si fosse trovata davanti a un compito drammatico.
«In un certo senso è così. Venivo da una vita molto complicata: un’infanzia difficile, una giovinezza ancora più pesante. E questo porta più instabilità che profondità».
Quando dice difficile a cosa allude?
«Beh, principalmente al fatto che provengo da una famiglia molto patologica. Pensavo proprio in questi giorni alla precarietà nella quale vivono i giovani senza un lavoro, senza una prospettiva. Mi sentivo così anch’io. Sono maestra elementare, non ho fatto il liceo classico. Ricordo che dopo il diploma mi iscrissi al centro sperimentale di cinematografia. Crede che, una volta uscita, abbia trovato un lavoro? Capisco quello che sta accadendo oggi, capisco la disperazione».
Poi la svolta inattesa.
«Sì, ma accompagnata da attacchi, insulti, calunnie. La gente vedeva in me un golem e provava antipatia».
Questi “attacchi” vennero dopo la pubblicazione di Anima mundi. Il suo editore di allora, Alessandro Dalai, ha detto in un’intervista a questo giornale, che lei inspiegabilmente divenne un’acerrima nemica della sinistra e questo le ha creato molte critiche.
«Anima mundi non era un libro sull’ideologia comunista, ma sul dolore che aveva prodotto il fallimento del comunismo. In particolare per quegli italiani che andarono verso Tito, convinti di trovare la libertà e furono invece internati. Un romanzo che metteva fine all’idea idilliaca di un sistema fatto per l’uomo. Quando in realtà era solo un regime paranoico».
Lei, si disse, fece coincidere questo suo ripensamento anche con un suo avvicinamento al mondo religioso.
«Sono sempre stata una persona aperta e curiosa. Vengo da una famiglia laica, anzi atea, e ho avuto la fortuna di non frequentare preti da piccola. Dunque, quello che lei chiama avvicinamento al mondo religioso si è realizzato in forza di un’inquietudine interiore che ho coltivato camminando lontano dalle strutture di potere. L’unico referente nella mia vita è la mia coscienza. Né la radicalità, né il fanatismo fanno parte del mio carattere».
A leggere certi suoi articoli non si direbbe. Noto, anzi, una forte radicalità.
«Ma è una radicalità nell’eticità». 

Per esempio, non c’è nessuna comprensione per gli anni Settanta e per il femminismo.
«Sono stati anni devastanti. Sinceramente non ho mai preso distanze nette dalle amiche femministe. Vivo in un mondo mio, mi interesso di coleotteri, non ho uno spirito militante. Semplicemente penso che quel mondo lì si sia prosciugato. Oggi, per esempio, le bambine si rifanno a modelli abominevoli e puntano con ogni mezzo al successo a ogni costo».
A quali modelli pensa?
«Al sistema delle televisioni private. Grazie alla loro volgarità abbiamo assistito a un enorme lavaggio del cervello. Sono stati polverizzati i valori etici di base. Oggi una bambina di dieci anni pensa alla linea e al ritocchino. Io mi ritengo una devota della realtà. E se la realtà è questa che descrivo dobbiamo chiederci cosa possiamo fare per cambiarla».
Essere devoti della realtà significa essere parte di una concezione laica della vita.
«Ma io sono una super laica. Però nemica delle definizioni».
Perché la gente pensa il contrario di lei?
«Non lo so. A me interessa che una persona si comporti in maniera coerente. Uno, magari, gode di una buona definizione, ma nella vita è un uomo orrendo. Va riconosciuta la ricchezza della complessità etica che purtroppo manca nel nostro paese».
Come fa a conciliare il richiamo alla laicità con la convinzione che il Decalogo, ossia i dieci comandamenti, sono il nostro fondamento?
«Ma il Decalogo è il fondamento etologico della vita dell¿uomo. Per i credenti basta il primo comandamento, tutti gli altri sono per gli agnostici».
Non crede che il primo comandamento condizioni tutti gli altri. E che la fede finisca con l’avere la meglio sul resto?
«Decalogo significa rispetto di quei valori che costituiscono l’etologia della specie umana. Fuori da questo c’è il buio e la barbarie. Quanto alla fede è qualcosa di misterioso: alcuni ce l’hanno, altri la trovano, altri ancora non riescono ad averla mai».
E lei ce l’ha?
«Ogni giorno ho bisogno di mettere alla prova la mia fede. Ogni giorno non credo e so che la fede si deve nutrire col dubbio. Al tempo stesso, avendo studiato per vent’anni, con i maestri giapponesi, sono molto legata alla natura, alla concretezza del guardare. La Chiesa fa molte chiacchiere, pensa alla fede come a un’elaborazione teorica, staccata dalla fisicità. Questo è il problema».
E lei come lo ha risolto?
«Personalmente vivendo a contatto con la terra, curando le piante e gli animali, aiutando le persone. E sapendo che la vita e la morte fanno parte del nostro ciclo».
Sia in Per sempre che ne L’isola che c’è lei si pone il problema della morte. E, in qualche modo, entra anche nel dibattito su quale atteggiamento avere nei riguardi del morente. Che scelta fare, a quali valori ispirarsi. Lei come si pone?
«Abbiamo sempre la scelta di morire, possiamo ucciderci quando vogliamo e confesso che più volte ho pensato al suicidio. E credo anche che se una persona ama sinceramente un’altra – che soffre in maniera inaudita, e che è alla fine del suo percorso – possa contemplare l’idea di ucciderla. Lo si è sempre fatto nelle famiglie. La cosa che trovo sconvolgente è l’istituzionalizzazione della morte. Quando la si praticava nel silenzio, nella compassione, nella carità era un gesto umanissimo. Ora è un delirio pericoloso che si vuole disciplinare con una legge».
Vuole dire che lei è contraria all’eutanasia?
«Sì, lo sono. Come sono contraria al delirio tecnologico che si accanisce sul morente».
Quando dice di aver pensato al suicidio cosa le era accaduto?
«Ero giovane e molto disperata e quel gesto è una delle possibilità della nostra vita» «.
Al di là della comprensione, la nostra società fa fatica ad accettarlo.
«Lo so, perché l’amore per la vita è innato e il suicidio apre un vuoto. Un mio amico si è ucciso, come condannarlo però? Ci sono dei momenti della vita che possono spingerti a questo. Se stessi male, potrei anche compiere quel gesto. Mio padre aveva una pistola pronta e sapevo che si sarebbe potuto ammazzare».
Non capisco a questo punto la sua contrarietà all’eutanasia?
«Perché legittima un principio di orrore. Una volta le persone morivano in casa, faceva parte della vita. Oggi la morte è stata ideologizzata, è entrata nel meccanismo della legge. Si è perso il senso del sacro».
E la Chiesa?
«E’ completamente inadatta a darcelo. Basta vedere come insegna la catechesi ai bambini. Il senso del sacro non è la festa, ma il timore e il tremore che provoca. Purtroppo nella Chiesa non si trovano più maestri spirituali. E se ci sono, stanno nascosti».
Lei è cattolica?
«Detesto questa domanda, mi provoca un brivido».
Le parole servono anche a collocare.
«Sono credente e praticante. C’è una grande differenza tra la Chiesa ufficiale e quella reale. Quest’ultima è una delle grandi risorse del nostro paese. Attorno ad essa si organizzano centri di eticità sociale. La Chiesa dei palazzi invece non sa parlare alla modernità perché non ne conosce la lingua».
La Chiesa ha sempre condannato l’omosessualità. Anche questo è un suo limite?
«Non sappiamo perché uno nasce omosessuale, ma dobbiamo accettarlo, accoglierlo, non condannarlo. Non mi piace una Chiesa che condanna gli errori altrui e giustifica i propri».
Si è detto di lei che è un’omosessuale che non ha il coraggio di dichiararlo. Cosa c'è di vero?
«Non posso fare outing per qualcosa che non è vero. Non sono omosessuale. Vivo da sola, dormo da sola, in castità. Le persone che sono con me, e che amo, lo sanno: non potrei avere una vita diversa da quella che ho».
Tamaro appare come una donna determinata, a tratti dura, diversa dalla fragilità che denuncia. Che fine hanno fatto i buoni sentimenti?
«Detesto i buoni sentimenti. Non accompagnerei mai una vecchietta ad attraversare la strada. Non mi piace la melassa, non mi piace la retorica sul bene. Perché il bene è una conquista difficile».
E lei ce l’ha fatta a conquistarlo?
«Non lo so, me lo auguro. Bisogna cercare di vivere con il cuore e la mente aperta. Accogliere tutto ciò che di creativo c’è nella vita. Tutti i discorsi sull’al di là che importanza hanno? Magari di là non c’è niente. Però intanto l’al di qua l’ho vissuto magnificamente. Il bene è vivere la fede, sapendo di non dover inseguire buoni premi. Vivere accogliendo l’umano».

la Repubblica – R2 Cultura

Già dalle prime frasi del libro "Va dove ti porta il cuore" ho provato ammirazione ed una benevola invidia per la scrittura di Susanna Tamaro. E' passato tanto tempo da quando lo lessi: sicuramente nel 1994. Lego i miei ricordi a degli avvenimenti e non posso averlo letto in una data successiva a questa... Perché lo regalai ad una fidanzata di uno dei miei figli che lo lesse d'un fiato, poi lo lessi anch'io, e il libro se ne andò insieme con lei proprio nel 1994, andando dove l'ha portata il cuore, lontano da mio figlio...
Susanna Tamaro in quel libro non fa una morale alla nonna che pure è un'adultera e della specie peggiore, che arriva a far credere al marito che l'unica figlia, concepita con l'amante, sia sua.
Lei parla di sentimenti, giusti o sbagliati non importa: sono sentimenti.
In questo libro che ho appena finito di leggere, "Per sempre", una morale dell'autrice invece traspare.
Anche qui si scende capillarmente nei sentimenti e, soprattutto, nel dolore ad essi connesso..
A differenza del suo capolavoro, che tanto successo le ha portato, qui ci sono dei punti anche noiosini: ad esempio quando si sofferma nelle descrizioni bucoliche, che richiamano certi romanzi dell'ottocento in cui la descrizione dei paesaggi era pratica quasi dovuta. 
Ma l'abilità di Tamaro è la sua capacità di rendere i sentimenti, legati ad una storia, universali, in cui si può ritrovare anche chi ha vissuto altre storie ma, umanamente, ha provato quei sentimenti.
Qui si affonda nella tragedia e nelle domande che restano sempre in chi rimane, relitto di quel naufragio.
Sopravvivere alle tragedie non è facile. E' sopravvivere, non vivere.
Mentre leggevo pensavo a quelle che mi hanno sfiorato di altre vite sfortunate: il racconto di un'amica che la notte sentiva singhiozzare un uomo, attraverso le mura condominiali, a cui la sorte aveva ucciso moglie e figlio che erano in un'auto che precedeva la sua. Non so di chi fosse la colpa, so solo che pensai a quell'uomo che nulla aveva potuto fare mentre davanti ai suoi occhi sua moglie e suo figlio morivano.
Oppure, la stessa amica, mi raccontava di un aereo, andato a fuoco sulla pista di decollo, in cui erano morti la sorella hostess e i genitori, che facevano un viaggio usufruendo dei biglietti scontati grazie al lavoro della figlia, di un altro vicino di casa che ora era solo: un giovane solo nella casa dove prima vivevano in quattro...
Queste vite vere hanno lasciato un segno nei miei ricordi per il loro dolore, anche se le loro vicende non le ho toccate da vicino..
Come si fa dunque a sopravvivere?
Tamaro prova ad immaginarlo e il protagonista della tragedia vive ma non vuole più vivere, perché si ingenera in chi resta un senso di colpa solo per il fatto di essere vivi mentre gli altri, i cari, non ci sono più.
Farà, per questo, male a chi gli vive accanto, perché il contrasto fra lui che è morto dentro e chi si illude di poter avere con lui una vita è invisibile ma sostanziale.
La perdita di ogni credo e speranza gli fa compiere un atto ignobile che poi il destino gli riporterà davanti in una forma che tocca i desolati sensi di colpa che ciascuno che legge può portarsi dentro, anche se per vicende diverse..