mercoledì 2 novembre 2022

Superficialità - dalla Raccolta di Novelle Parentopoli

 http://www.ritacoltelleselibripoesie.com/2017/07/famiglie-allargate-dalla-raccolta-di.html


Superficialità

Questo racconto può dirsi una continuazione dei fatti riguardanti i personaggi della Novella "Famiglie Allargate" di cui sopra riporto il link.

Il marito della sorella di Sandra, la protagonista di tale novella,  in essa viene citato ma non ne abbiamo scritto il nome: Diego.

E' un bravo giovane che dopo la laurea ha cercato disperatamente un lavoro, trovandolo solo dopo un anno dalla laurea e a collaborazione coordinata e continuata. Uno di quei contratti i cui versamenti pensionistici si perdono nel calderone dell'INPS e mai ritorneranno nelle tasche del lavoratore, a meno che costui non metta altri soldi suoi versando migliaia di euro nella casse dell'italico carrozzone.

Ha continuato poi a cercare sempre di meglio, non senza sacrificio, cambiando tipo di lavoro, ambiente e mansioni con tutta la fatica di adattamento che questo comporta. La stessa cosa ha fatto la sua amata, la sorella di Sandra, Rita, più piccola di Sandra, anche lei come il marito con un laurea in Ingegneria Gestionale. Con l'aiuto della famiglia di Diego hanno potuto iniziare il loro matrimonio senza pagare un affitto avendo una piccola casa di proprietà.

Hanno lavorato molto, impegnatissimi, pronti al cambiamento, con sacrificio, sempre per migliorare. Rita è diversa da sua sorella, ha spirito di iniziativa, quello che a Sandra manca, infatti fu proprio Diego a stimolarla a cercare un nuovo lavoro, visto che lo Studio dove lavorava e in cui si era adagiata le dava un reddito basso. E nel nuovo studio aveva incontrato il titolare, che poi era diventato suo marito.

Ci sono fatti che non vediamo presi dall'affetto per una persona e Diego non vedeva che la consuetudine di pagare ogni tanto la pizza al ristorante ai genitori delle due sorelle, che offrivano a metà con Alessio, il ricco avvocato marito di Sandra, ai comuni suoceri, era comprensiva anche della presenza dei genitori di lui, Alessio, e la stessa Rita, molto legata  alla sorella, trovava tutto questo normale: i loro genitori e i suoceri di Sandra.

Ogni tanto capitava che i genitori di Diego volessero vederli e andavano a mangiare una pizza tutti e quattro insieme, ma il gesto di Diego di voler offrire la pizza ai suoi genitori veniva da questi fermamente rifiutato dicendo meravigliati: "Siamo noi che dobbiamo offrire a voi: siete giovani, lavorate tanto per costruirvi un avvenire; con tutti i figli ormai non più dipendenti dal nostro reddito siamo solo felici di offrirvi una pizza ogni tanto, lo facciamo anche con gli altri figli, non solo con voi."

Diego cedeva anche se malvolentieri, non potendo scontentare i suoi genitori, che usavano questo modo di essere con tutti i loro figli e lui non poteva dunque che  accettare la loro consuetudine. Però gli si accese una lampadina quando, per l'ennesima volta, Rita gli disse: "Sabato prossimo andiamo con i miei e i suoceri di Sandra a prendere la pizza da "Capriccio". Va bene?"

"Si, - rispose Diego - ma voglio chiedere ai miei genitori se vogliono venire anche loro." 

"Ah, si! - Fece Rita un po' sorpresa, ma poi rimosse il pensiero, che forse le si era affacciato, che qualcosa fino a quel momento era stato trascurato.

I genitori di Diego accettarono e furono accolti con grande simpatia dai genitori di Alessio che peraltro conoscevano già, dato che Sandra li aveva invitati più volte nella casa studio in cui viveva con Alessio, in affitto in un quartiere elegante. I due, un poco schivi, avevano declinato gli inviti ma una volta, in una ricorrenza che riuniva tutta la famiglia, erano andati.

Naturalmente in questo caso dovettero accettare che il conto lo pagassero Diego e Alessio anche per loro che preferivano sempre offrire ai loro figli per non gravare in alcun modo sui loro bilanci, sapendo quanto fosse difficile il mondo del lavoro in Italia, quanta fatica dovessero fare per far entrare uno stipendio.

Alessio sembra che avesse fatto tutto da solo nel costruire la sua fortuna economica, il grande giro di clienti facoltosi, dato che i suoi genitori avevano solo provveduto ai suoi studi come a quelli del fratello maggiore, il quale però con la laurea non aveva fatto granché e il suo reddito si basava su suo fratello a cui teneva la contabilità.

La madre di Diego era una osservatrice e una persona molto riflessiva e nei contatti con quella famiglia aveva saputo che il fratello di Alessio si permetteva di non stimare Sandra dal punto di vista professionale e aveva pensato: "Non valuta sé stesso? Se non ci fosse il fratello non avrebbe neppure un reddito fisso e sicuro, e si permette di disprezzare Sandra."

Ma aveva avvertito, da una frase del suocero, che anche lui non riteneva Sandra una persona capace, dato che l'aveva paragonata al padre, notoriamente uno che nella vita non aveva combinato né costruito niente. Insieme alla moglie Augusta avevano perso tutta la cospicua fortuna accumulata dal padre di lei. Ora, in vecchiaia, forse non avevano che una misera pensione non bastante per vivere. Non era un mistero, tanto è vero che, durante quella sera in pizzeria in cui erano presenti anche i genitori di Diego, Alessio con molta disinvoltura rivolto a Diego disse: "Ci penseremo noi, no Diego? Si metterà un po' per uno!"

I rispettivi suoceri tacquero. Diego non fece apparentemente una piega. I suoi genitori e quelli di Alessio neppure. Le due sorelle non fecero trapelare alcun pensiero dall'espressione del viso.

Quanta superficialità in codesto impegno da parte di Alessio.

Non molto tempo dopo egli informò Sandra che si era innamorato di un'altra donna e che intendeva andare a vivere con lei. Invitò poi Sandra a trovarsi un altro lavoro giacché non intendeva più tenerla come collaboratrice nel suo studio.

Tutto dimenticato: figuriamoci l'impegno a mantenere gli improvvidi genitori di Sandra in vecchiaia in tandem con Diego... 

Rimase dunque solo quest'ultimo con Rita ad avere questo incarico disinvoltamente preso da Alessio e altrettanto disinvoltamente dimenticato.

Sandra, improvvida come  i suoi genitori, si trovò senza reddito, a parte quello che il suo avvocato, da lei incaricato di curare la separazione legale, riuscì a farle avere dal marito fedifrago.

Sulle spalle di Diego e Rita, che tanto si erano sacrificati cambiando diversi lavori, rimasero i due vecchi.

Riflessioni sulla morte

 

Riflessioni sulla morte.

Nel giorno della ricorrenza dei defunti e a due giorni da un malessere che mi ha fatto pensare alla mia fine scrivo serenamente queste riflessioni.

Sono atea. La visione del mondo che mi hanno dato i miei genitori era di un Dio invisibile che si preoccupava di me, che leggeva i miei pensieri. Un Dio che aveva creato l’Universo fin qui conosciuto ma che si rispecchiava in questo mammifero pensante chiamato Uomo. Ci è voluto poco perché avessi i primi dubbi e siccome militavo in Azione Cattolica li ho esternati alle Effettive, così si chiamavano le iscritte più grandi che fungevano da guide spirituali oltre al sacerdote che si occupava di noi: mi dettero da leggere “Le 5 vie di S. Tommaso D’Aquino” per arrivare con la semplice ragione a Dio, visto che secondo loro “la Fede” non deve porsi domande ed io “ragionavo troppo”.

Avevo 17 anni: lessi con impegno ma Tommaso D’Aquino non mi convinse.

Ma continuai a cercare Dio. Lo immaginavo come la mia educazione cattolica lo prospetta e cercavo di seguire le regole di una vita pulita e giusta. Intanto scoprivo cose che per la mia famiglia erano inimmaginabili: malvagità estrema, maldicenza e calunnia, da parte di gente che nemmeno conoscevo ma che aveva notato me e la mia vita provandone invidia.

E’ stato traumatico come è scoprire l’ingiustizia e la manipolazione della realtà. Ho superato tutto accettando che se questo avveniva vuol dire che poteva accadere, che esiste gente così, che comunque c’è questo Dio che avrebbe messo a posto tutto.

Ma il male dal quale non ho saputo difendermi mi ha messo con le spalle al muro dal punto di vista economico e mi ha costretto a scelte che mai avrei voluto fare per i miei valori.

Quello è stato il punto massimo della mia credenza che esistesse Dio. Il mio pensiero silenzioso si è rivolto a Dio chiedendogli solo un segno della sua presenza, solo un segno che mi avrebbe dato forza per andare avanti per la strada della bontà, della correttezza, del non reagire se non “porgendo l’altra guancia” come è il dettato di Cristo e l’idea di Dio che lui ha lasciato: se Dio c’è è sua la Giustizia.

Ero di fronte ad una scelta cruciale. Volevo solo che non mi abbandonasse.

Ma il mio pensiero, la mia anima, chiamiamolo come volete, non ha praticato l’autoinganno di una suggestione e mi ha risposto solo IL SILENZIO ASSOLUTO. Nessun segno, nessuna ispirazione, solo una TOTALE SOLITUDINE NELLA MIA MISERA CONDIZIONE.

Da quel momento, avevo 37 anni, ne erano passati 20 dai miei primi dubbi, ho smesso di tormentarmi e di soffrire chiedendomi il perché di tanta ingiustizia che vedevo non solo su di me, ma molto di più nel mondo sugli innocenti.

Da quel momento tutto era solo sulla mia coscienza, che obbediva comunque ai principi morali con i quali sono stata costruita ma con una lucidità e responsabilità maggiore.

Ho accettato dunque la morte, soprattutto la mia, come ovvia fine biologica.

Non mi fa paura. Penso di aver già vissuto una vita sufficientemente lunga per la mia specie e dunque in qualunque momento arriva è fisiologica: 76 anni.

Due giorni fa credevo fosse giunto quel momento. Ho avuto un arresto di respiro fino al punto che non riuscivo a chiamare mio marito che era distante da me meno di 10 metri, che mi faceva cenni di sbrigarmi, ho provato a mettere un piede davanti all’altro con grande sforzo appoggiandomi alla balaustra che costeggiava il marciapiede, ma la nausea fortissima che aveva accompagnato la quasi assenza di respiro aumentava, non riuscivo a tenere il capo eretto e la vista si era leggermente appannata.

Il pensiero è veloce come la luce e ho lucidamente pensato che stavo morendo, che ero nell’età in cui non è sorprendente morire, ma quanto sarebbe durato quel malessere prima che tutto si spegnesse? Solo quello mi ha preoccupato.

Invece tutto si è risolto in una ventina di minuti e sono ancora viva.

Ma di certo il quando e il come, soprattutto il come, è l’unica cosa che mi fa timore misto a rassegnazione. La morte bisogna guadagnarsela soffrendo.

2 riflessioni sulla morte che mi sono piaciute:


Per chi non l'avesse capita Mark Twain dice con il suo intelligente umorismo quello che penso anch'io: nulla eravamo prima di nascere e nulla saremo quando il nostro cervello si spegnerà per sempre


venerdì 21 ottobre 2022

Un ricordo di un incontro in treno verso la Francia

 




Era il 1978: chissà dove saranno Kwon Yong Aei e suo marito... Non siamo mai andati a trovarli a Seoul... Né loro al nostro indirizzo in provincia di Roma che le lasciammo....

sabato 10 settembre 2022

Per ridere un po': Le Comiche "Carlo ha paura"

 

"Carlo ha Paura"





Carlo: "Ho paura di fare il Re... Forse è meglio passare la mano a William."




Camilla Shand: "Ma cosa dici Carlo! Tu sei forte, sei pronto a fare il Re.. Tuo figlio ancora è giovane, non ha esperienza.."




Carlo: "Mia madre è inarrivabile.. Ho paura di non essere all'altezza.. Meglio abdicare e dare il trono a William, con una moglie giovane, tre bei bambini, l'immagine della Casa Reale nel mondo sarà rinnovata! Dopo una Regina storica come Elisabetta una famiglia giovane ne farà sentire meno la mancanza..."


Camilla Shand: °°°pensiero°°° Ma questo scemo dopo tanta attesa non mi fa diventare Regina?! Devo fargli da stampella o questo mi crolla, lo devo convincere che lui è all'altezza così io rimango Altezza Reale!
Se ripenso a quando ero Parker Bowles..
Vedo me con il mio primo marito:
Non so nemmeno io come ho fatto..
                                                                   Con questa faccia cavallina...


Carlo: "Tu che dici Camilla..? Ce la posso fare? La gente non mi vedrà inferiore a mia madre? Solo un esperto di acquerelli..?"





Camilla Shand: "Ma certo che ce la fai Carlo!!! Tu sei eccezionale, amato dai sudditi! Su, su, su! Sarai un grande re!
°°°E io finalmente Regina! Alla faccia di quella pupattola di Diana!°°°






Carlo: "Mi hai convinto.. Come sempre.. My Dear.. Si io sono un grande uomo, sarò un grande Re."






Carlo: "Senza Camilla però mi tornano i dubbi... Forse non sono all'altezza di mamy... La gente se ne accorgerà.."







Carlo:°°°pensiero°°°Ed eccomi qui... Mi sento un po' coglione..Bardato in questo modo.. Preferisco la giacca con il fiorellino... Ma forse non lo sono..°°° 







Camilla Regina Consorte:
"Ce l'ho fatta! Ce l'ho fatta!

martedì 30 agosto 2022

Non è detto che un Premio Nobel debba piacermi per forza

 L'ho già scritto per il mancato Premio Nobel (così qualcuno ha scritto) Philip Roth http://www.ritacoltelleselibripoesie.com/2018/06/il-teatro-di-sabbath-di-philip-roth.html: mi è bastato un libro per escludere che quello scrittore meritasse il Nobel.

La stessa cosa mi è accaduta con Doris Lessing che, invece, il Nobel l'ha ricevuto.

Doris Lessing sulla soglia della sua casa attorniata dalla stampa subito dopo la notizia dell'assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura nel 2007


"Il diario di Jane Somers" è scritto bene, discretamente, ma per quanto nella vita io abbia ormai accettato che la realtà di certe psicologie reali è incredibile ma vera, ho trovato incomprensibile la realtà della protagonista di questo romanzo.

Per confrontarmi con altri lettori ho letto qualche recensione e, come sempre, i pareri sono differenti, confermando quanto ho scritto da tempo, che ogni libro creando un incontro fra due menti, lo scrittore ed il lettore, partorisce un risultato specifico, frutto di quell'incontro e non di un altro diverso.

Quello più vicino al mio punto di vista è di un uomo che ha dimostrato le mie stesse perplessità sulla psicologia del personaggio creato da Doris Lessing.

Doris Lessing in una foto giovanile

Il tema del libro per molti è la vecchiaia, il decadimento e la morte che si sa vicina. Ma, come scrive il lettore che ha notato le mie stesse cose, pur essendo egli vicino a quel tempo della vita, trova che con la vecchiaia il messaggio del libro c'entri poco, vedendoci piuttosto un bisogno di espiazione, quanto mai contorto, da parte della protagonista.

La Lessing ci descrive una donna in carriera, molto soddisfatta del suo lavoro, che ha una grande cura della sua bellezza ed eleganza, vestendo in modo raffinatissimo.

Allo stesso tempo ella è arida fino al punto di non avvertire grande dolore per la malattia crudele che in breve tempo porta suo marito, ancor giovane, a morte e, con mio sconcerto, la Lessing descrive quello che per me è una specie di mostro sul piano psicologico: appena morto il marito lei si porta a casa uomini con cui va a letto fino a dire nel "diario": "Una volta a un party dell'ufficio mi guardai intorno e mi resi conto di essere stata a letto con metà degli uomini presenti."

Ecco, questa persona priva di sensibilità e di sentimenti, egoista con la madre morente le cui cure scarica sulla sorella, sposata e con un carico familiare di marito e figli, all'improvviso diventa nei riguardi di una vecchia sconosciuta, incontrata per strada, brutta, scorbutica e sporca, una specie di suora infermiera pronta ad umiliarsi e sporcarsi le mani per ripulirla anche delle sue maleodoranti feci!

Cosa vuole comunicarci Doris Lessing? Una psicologia malata? Intrisa di masochismo estremo? La descrizione di tutto il libro è su questa sconosciuta di cui lei si prende cura, sentendo un obbligo che mai ha sentito per il marito, che le ha dato un sesso felice per dieci anni, tanto che appena morto lei non poteva stare senza, accattandosi in giro qualsiasi organo maschile a disposizione!

Sconcertante. E questo romanzo non trasmette alcun messaggio sulla vecchiaia. Anche perché non tutte le vecchiaie sono uguali, come le vite... E' solo il diario di una donna che passa dai profumi costosi di cui si inonda alla maleodorante pulizia di una vecchia che si caca sotto e che lei ripulisce in una specie di scantinato dove questa abita usando per di più catini di fortuna!

Roba da Suor Teresa di Calcutta!



Incredibile psicopatologia, come ho detto anche possibile nella realtà, che a quasi 76 anni non finisce di stupirmi tanto ogni essere umano nuovo che incontro dimostra nuove e sorprendenti follie!

Ma Doris Lessing non mi ha trasmesso nessuna emozione con questo libro, solo tristezza e un vago disgusto e come per Philip Roth non leggerò più niente di lei.

sabato 27 agosto 2022

Dallo zar ad un'oppressione peggiore

 

Varlam Tikhonovic Salamov (1907-1982)  


LA MIA VITA CON SALAMOV
                    E L'OMBRA DI 21 ANNI DI GULAG

i n t e r v i s t a 

                    
lrina Pavlovna Sirotinskaja gestisce l'eredità letteraria del grande autore dei Racconti di Kolyma: ecco la sua storia.

Irina Pavlovna Sirotinskaja non è stata solo la compagna più assidua degli ultimi anni di vita di Varlam Tikhonovic Salamov, lo scrittore che passò 21 anni nei Gulag i campi di lavoro sovietici, e sopravvisse per raccontarli nei Racconti di Kolyma.

A lei, che ha curato l'edizione Einaudi del 1999 dei Racconti Salamov, morto nel 1982, lasciò tutto ciò che aveva.

Quando e come vi eravate conosciuti?

"Nel 1966, il 2 marzo. È una data che non posso dimenticare: anche adesso in quel giorno cerco sempre di visitare la sua tomba. Leggevo molto il samizdat, la letteratura del dissenso, e quindi conoscevo alcuni dei suoi racconti. Mi avevano fatto una grande impressione. Con me lavorava un'amica la cui madre conosceva bene Varlani Tikhonovic, che mi fu presentato. Lui aveva 59 anni, io 33. Ero sposata e avevo tre figli".

Come viveva Salamov in quel periodo?

"Non lavorava, viveva di una modesta pensione d'invalidità di 42 rubli. Gli era stata assegnata nel 1957, quando si era ammalato per le percosse subite nei Gulag di Kolyma.
Per arrotondare scriveva recensioni, finché più tardi lo Stato gli riconobbe un'indennità di 72 rubli per i dieci anni passati al lavoro forzato in miniera.
In vita pubblicò solo cinque brevi libretti, in cui le poesie relative a Kolyma erano regolarmente tagliate.
Lui diceva: "Questi libri sono come invalidi, con le braccia e le gambe amputate".
Nonostante le delusioni, però, lavorava tutti i giorni.
Comprava tanti libri. I libri e le mele, ecco i due lussi che si concedeva. 
Per il resto, sembrava non aver bisogno di niente".

Le parlava del Gulag?

"Non passava giorno che non ne parlasse.
E raccontava in modo meraviglioso, a me sembrava di vedere le cose di cui parlava. Parlarne con me, diceva, lo aiutava a risvegliare i ricordi. Ecco perché sull'ultimo libro di racconti scrisse: "A Ira, autrice con me di questa raccolta".

Su cosa si fondava la vostra amicizia?

"Credo che in fondo fossimo molto simili, eravamo stati entrambi educati al culto della letteratura russa dell'Ottocento.
D'altra parte ai nostri tempi romanzi gialli non ce n'erano, a dodici anni leggevo Gogol', Tolstoj e Dostoevskij".

Salamov era stato sposato due volte. Che cosa provò nel ritrovarsi solo all'incombere della vecchiaia?

"La sua prima moglie era stata Galina Ignatevna Gul'c, che aveva conosciuto prima di finire a Kolyma. 
Dopo l'arresto iniziarono a scriversi, ma non vedersi per 17 anni rese le cose molto difficili.
I veri problemi, però, iniziarono quando Varlam Tikhonovic tornò da Kolyma.
Lei non voleva che lui raccontasse la sua storia alla figlia Lena, che andava all'Università, era iscritta al Komsomol (la gioventù comunista, ndr) e sui moduli d'iscrizione aveva scritto che il padre era morto".

Sembra una storia molto crudele...

"Forse bisognerebbe mettersi nei panni di una donna che aveva tanto a lungo atteso il marito e non capiva perché lui, tornato a 53 anni da Kolyma, volesse solo scrivere del Gulag e non costruirsi una vita normale.
Quando Varlam Tikhonovic ottenne la libertà, Stalin era morto da poco. Tre anni dopo, quando Salamov fu riabilitato, Galina ricevette da lui una lettera che diceva: "Le nostre strade si dividono". Si separarono e lui non vide mai più né lei né la figlia".

Negli ultimi anni, Varlam Tikhonovic Salamov visse in un ospizio. Era una cosa che gli pesava?

"Moltissimo. Ma non c'era stata altra soluzione. Avrei dovuto stare con lui tutti i giorni, di fatto abbandonare mio marito e i miei figli, e questo non potevo farlo. Un giorno mi chiese che cosa doveva fare. Risposi che forse avrebbe dovuto pensare alla casa di riposo.
Lui s'infuriò, rispose:
"No, piuttosto sposo la prima che capita!".
Ma aveva 79 anni, che potevamo fare? 
Morì a 82 anni, in una mattina di gennaio piena di sole". 

FULVIO SCAGLIONE
NOTA DI Rita Coltellese: le date di nascita e di morte di Varlam Tichonovič Šalamov accanto alla sua foto nell'inserto sopra riportato sono esatte.
Nell'intervista fatta alla sua amica lrina Pavlovna Sirotinskaja ci sono delle inesattezze evidenti giacchè essendo nato nel 1907 e morto nel 1982 egli morì a 75 anni

Leggendo "I Demoni"  (http://www.ritacoltelleselibripoesie.com/2022/04/riflessioni-su-i-demoni-di-fedor.html) ho capito a cosa si ispirava Dostoevskij descrivendo i suoi personaggi: i protorivoluzionari dell'Internazionale Socialista che decenni dopo porteranno alla Rivoluzione Russa del 1917.
La ferocia delle estremizzazioni di certo pensiero, che nasce contro la tirannia e a favore dei lavoratori, ma si rivolta poi anche contro i suoi stessi compagni, ne "I Demoni" Dostoevskij lo mette in evidenza in due episodi legati fra loro: il gruppo di cospiratori di idee socialiste ammazza Satov solo per il timore che egli possa tentennare su ciò che stanno facendo e fa ricadere la colpa su un altro del gruppo, Kirillov, che già aveva idea di suicidarsi e, nella sua follia, lascia una lettera in cui si attribuisce l'omicidio a cui però non ha partecipato.

La Rivoluzione fu comunque necessaria: lo zar cieco alla sofferenza del suo popolo.
Ma poi dopo la morte di Lenin prevalse il terrore di Stalin che fece uccidere Trockij, costretto a vivere lontano dalla Russia Socialista di cui era stato uno dei fondamentali costruttori.
Stalin, lo abbiamo saputo dopo in Italia in cui ingenuamente i comunisti si ripetevano la frase "Ha da venì Baffone!", come un mantra augurale di chissà quali giustizie sociali, fu un mostro assolutamente paragonabile ad Hitler.
Tanto che negli anni cinquanta del secolo appena passato in Russia ci fu la "destalinizzazione" e il mondo assistette alle statue con l'immagine del dittatore tirate giù dai piedistalli e mandate in frantumi: uno spettacolo che in Italia si era visto dopo la fine della disastrosa Seconda Guerra Mondiale con le statue di Mussolini.
Ma il regime staliniano è stato ben più schiacciante le libertà personali rispetto al regime fascista italiano.
La Libertà e la Dignità personale in Russia sotto Stalin non esistevano più.
La Legge non era più garanzia di nulla, la Libertà di una persona poteva essere tolta all'improvviso senza che questa ne conoscesse la ragione, e spesso senza ragione alcuna, se non la paranoia insindacabile di un sistema che spiava sé stesso. Le persone hanno vissuto per decenni senza nemmeno la libertà mentale, di poter pensare liberamente... Il delitto peggiore a mio avviso è stato piegare le coscienze a questa oppressiva paura del sistema, che vuole una fede assoluta che non basta, perché il sospetto di un'altra qualsiasi mente dell'apparato può all'improvviso gettarti nella disgrazia.
Un esempio per me atroce è il disconoscimento che la figlia di Varlam Tikhonovic Salamov fa della paternità del padre...
Il padre, vittima dello stalinismo, gettato in un gulag, un lager nell'estremo lembo della Siberia di nord-est, senza aver fatto nulla, come tanti di cui egli racconta nei suoi Racconti di Kolyma, viene ripudiato dalla figlia "perché fa l'università" e quel padre, vittima dell'atroce sistema oppressivo, può nuocere alla sua carriera...
Questa corruzione della coscienza di sua figlia è il delitto più orribile che tale sistema può operare.

Leggere la pacata narrazione degli eventi che Varlam ha visto scorrere davanti ai suoi occhi, privato della sua libertà e gettato in un lager creato dall'U.R.S.S. in una penisola gelida della Siberia estrema a nord est chiamata Kolyma, mostra l'orrore di una Società, di un sistema politico, simile al nazismo e forse più spietato perché rivolto contro sé stesso, i suoi stessi figli, accusati di crimini inesistenti, per un atteggiamento, una parola, un gesto interpretato come contro il popolo o il partito.
Condanne di decenni in un luogo le cui condizioni di vita sono già estreme per le temperature che arrivano anche a meno 50° centigradi, costretti a lavori forzati con pochissimo cibo.
Molti si uccidino, altri muoiono semplicemente di stenti.
L'essere umano viene annichilito.
Nulla di diverso da ciò che i nazisti fecero a chi era semplicemente ebreo...
Stavano male sotto lo zar ma, poveri russi, finirono in un inferno anche peggiore.
Un po' di luce venne con l'ucraino  Chruščëv poi ancor meglio con Gorbačëv ma siamo ripiombati con Putin nei massacri di vite umane solo per voglia di avere sbocco a mare a sud.

domenica 14 agosto 2022

Beppe Fenoglio la guerra, la disfatta e i partigiani; mio padre la guerra, la ferita, la malattia e l'odio per l'uccidere...

Ho sentito parlare tante volte di Beppe Fenoglio ma non avevo mai letto niente di lui. Ora sto leggendo "Una Storia Privata" che ha una forte connotazione autobiografica, quindi parla della sua esperienza nella lotta partigiana sulle colline piemontesi delle Langhe.

Beppe Fenoglio

Le Langhe le conoscevo attraverso Cesare Pavese di cui, invece, ho letto molto.

Cesare Pavese
Sono nati molto vicini Fenoglio e Pavese: i luoghi legati a ciascuno si ripetono nei nomi: Santo Stefano Belbo, Alba, Murazzano, Canelli...

Ancora in comune avevano la passione dello scrivere, delle letture, la conoscenza dell'inglese, il rifiuto del fascismo, l'essere degli inguaribili romantici.

Eh si, perché morti entrambi appena poco più che quarantenni, uno per scelta l'altro per malattia, inseguivano l'amore ancora come adolescenti.

Beppe Fenoglio ha scritto il libro che sto leggendo tardi, tanto è vero che esso è stato pubblicato postumo. E in questo libro, scritto quando l'adolescenza e l'amore di cui parla erano ormai lontani, si sente tutto il tormento di un amore forte ma non ricambiato, fino al punto di rischiare la pelle di partigiano solo per arrivare ad un amico, poi compagno di lotta, catturato dai fascisti, non per eroico dovere ma per sapere se fra lui e la sua amata c'è stato qualcosa!

Eppure i segni dell'indifferenza amorosa di Fulvia ci sono tutti, ultima prova l'aver lasciato, nella villa dove era riparata da Torino per sfuggire ai rischi della guerra, il libro che lui le aveva regalato, segno della sua noncuranza per quel pegno d'amore unilaterale che per lei era solo un'amicizia, pur compiacendosi femminilmente di quella ammirazione.

Ma Fenoglio passata la guerra e i suoi orrori, che egli ha continuato a vivere nella lotta partigiana, ancora viveva in sé i sentimenti di sofferenza di quell'amore non ricambiato tanto da scriverne. Eppure aveva accanto una moglie, bella, discreta, che gli ha dato l'unica figlia, l'unica prova di carne della sua esistenza finita troppo presto, forse anche per il suo accanito fumare.

Diverso il destino amoroso di Pavese, meno fortunato si è trascinato di delusione in delusione fino al suicidio.

Diversi anche nell'approccio verso il fascismo e la guerra. Pavese per lavorare si è piegato "violentando la sua coscienza", come ebbe a lamentarsi egli stesso, ad iscriversi al partito unico spinto dalla concretezza di sua sorella, ma dopo l'8 settembre non si è dato alla lotta partigiana come invece fece Fenoglio.

Pavese non partì per la guerra richiamato come Fenoglio e come mio padre ad esempio. Le biografie, non particolareggiate, parlano solo di una cartolina precetto che avrebbe ricevuto nel 1943. Pavese non aveva fatto il militare essendo orfano, ma già alla visita verrà esonerato a causa dell’asma.

Mio padre solo una volta parlò con me di partigiani e, nel nominare la persona o le persone che "Erano partigiani" mise nella parola partigiani un che di timore rispettoso ma timore. Eppure mio padre era antifascista. Il suo foglio matricolare rivela che egli fu mandato al fronte nel maggio del 1940. I suoi racconti alla sua bambina erano pieni di rabbia e di frustrazione per essere dovuto partire per combattere una guerra in cui non credeva: "Se si fosse trattato di difendere la Patria aggredita va bene, ma quel pazzo ha scatenato una guerra di aggressione!" E ancora: "Se ti rifiutavi ti spedivano a Gaeta, al carcere militare, e ti fucilavano. Non avevi scelta!" 

Rimandato a casa perché gravemente ferito e malato nel 1942 avrebbe potuto darsi alla macchia e alla lotta partigiana anche se nel suo territorio, Accumoli, non c'era una particolare formazione della Resistenza. Ma il suo stato di salute era pessimo e dal luglio del 1942 fino al luglio del 1943 mio padre passò di Ospedale militare in Ospedale militare fino a quando lo Stato fascista lo mandò definitivamente a casa ridotto ad uno straccio non più usabile per la sua vergognosa guerra.

Dopo l'8 settembre avrebbe forse potuto, nonostante il suo stato di salute irrimediabilmente compromesso, andare ad unirsi ad alcune delle formazioni partigiane abruzzesi lontane dal suo territorio come la Brigata Maiella, ma credo che il suo stato di salute proprio non glielo permise insieme alla sua ripugnanza per l'uccidere di cui mi parlò.

Mio padre era un uomo di pace e ha vissuto la guerra come una violenza inaudita.

L'odio e il disprezzo per il Re in fuga, per Badoglio che aveva lasciato i suoi commilitoni allo sbaraglio, hanno inannellato per tutta la sua restante breve vita i suoi rabbiosi discorsi.

Per questo trovo indegno che si possa concedere sepoltura all'ignobile "Pippetto" dentro il Pantheon di Roma.

Il libro di Fenoglio, che ora ho finito di leggere, è, a detta degli studiosi dell'Autore, autobiografico fino al punto che hanno individuato la donna che Fenoglio amò non ricambiato e che egli nasconde dietro il personaggio di Fulvia. Nel descrivere la storia romanzata in cui si mischia il vero alla fantasia dell'Autore egli dipinge pagine di quella che era la vita dei partigiani delle Langhe: quello che mi colpisce non sono tanto le condizioni di vita estreme: pidocchi, cibo quel che capitava pur di nutrirsi, l'impossibilità dell'igiene fino ad avere la scabbia, quello che mi colpisce è l'uccidersi italiani con italiani peggio che in una caccia.

Il protagonista uccide un uomo dopo averlo sequestrato al solo scopo di scambiarlo con il prigioniero compagno ed amico dal quale vuole ossessivamente sapere se fra lui e Fulvia c'è stato qualcosa...

Fenoglio consapevolmente o meno ci fa sapere che si uccideva anche per motivi personali durante la lotta partigiana..

L'episodio in cui viene sacrificato un bambino appena 14enne, staffetta partigiana, preso dai militari rimasti fedeli al fascismo, in conseguenza dell'uccisione del sergente sequestrato e ucciso dal protagonista, dà l'immagine della ferocia reciproca e dell'effetto domino di un'azione mossa da privati sentimenti.

La lotta partigiana si smarrisce in fatti collaterali allo scopo vero di essa.

Questo libro è una descrizione ed insieme una confessione...

La parola che più vi ricorre è: fango.

Fango ovunque addosso al protagonista: nelle scarpe, nei calzoni, nella maglia, nel viso... Forse nell'anima.

Pavese è stato tacciato di vigliaccheria perché non ha fatto le stesse scelte di Fenoglio, ma può avere davvero paura di morire salendo in montagna contro i fascisti uno che la morte se l'è data poi da solo?

Mio padre odiava uccidere e forse Pavese pure.



Mio padre fu ricoverato dapprima nell'Ospedale da Campo n. 179 il 29 luglio 1942



Il 2 luglio del 1943, dopo aver trasformato mio padre da un ragazzo sano in un invalido, il Regio Esercito Italiano lo ha lasciato definitivamente a casa.
Così si è salvato dallo sbando dell'8 settembre e dal successivo orrore.


martedì 5 luglio 2022

"Tre Amiche" - dalla Raccolta "Novelle Nuove"

 


Tre Amiche

 

La chiamò al telefono e lei capì dal leggero affanno e dal rumore di fondo che stava passeggiando come al solito sulla battigia.

“Sei sopravvissuta alla Pasqua?!” Le chiese con l’impeto che le era congeniale.

A Sara venne da ridere capendo a cosa si riferiva. Era da quando aveva 15 anni che Annabella la faceva ridere con il suo inguaribile umorismo.

“Si, - rispose divertita – sono sopravvissuta.”

“Ma sono venuti tutti da te?”

“Si, tutti.” Rispose ridendo. Annabella si riferiva ai figli di cui le due amiche a volte parlavano confidandosi i reciproci problemi e delusioni, fortunatamente non gravi, che potevano ricevere da loro.

“E sei contenta di aver faticato per loro per l’ennesima volta? Fare la spesa, portarla a casa, cucinare, apparecchiare la tavola , pulire prima, ripulire dopo..?!”

Sara capiva tutto quello che c’era dietro quell’elenco che la sua amica di una vita le illustrava. Sapeva bene quale era il succo e il senso: non sempre tutto questo veniva riconosciuto da tutti i figli… Ma nonostante qualche piccola delusione di cui era cosciente rispose: “Ma io li amo!”

“Hai sentito Micol! - Gridò nel microfono Annabella. – Lei li ama!”

E questa seconda parte della frase la gridò di gola, quasi a rimarcare la sua meraviglia a quella prevedibile motivazione e, nel contempo, Sara scoprì che, come accadeva spesso, la figlia l’accompagnava nella lunga passeggiata sulla spiaggia.

“Io li odio!” Proferì con rabbia e con violenza e Sara capì che l’amica era esasperata dal suono di gola con cui lo disse.

Annabella continuò lo sfogo camminando sulla spiaggia e coinvolgendo anche la figlia: “Odio questa cretina per le scelte che ha fatto, la odio!”

Sara conosceva la sua amica e i suoi sfoghi su tutto ciò che non le andava bene. D’altra parte anche lei aveva trovato ascolto e conforto a parlarle di tutte le cose amare che nel corso della sua vita aveva dovuto subire e sopportare. Conoscevano tutto l’una dell’altra. Ora, però, quella rabbia contro Micol le sembrava esagerata. Non giustificabile. E Sara sentì che non poteva fare come aveva sempre fatto, anche quando diceva cose sgradevoli per lei, che colpivano per l’insita gratuita insinuante cattiveria. Voleva bene alla sua amica nel suo insieme ma aveva parti del suo carattere, della sua personalità, che inducevano a doverla perdonare per poter continuare ad avere quel rapporto di amicizia.

Micol era sempre al suo fianco, l’accompagnava dappertutto, nelle frequenti visite mediche ed esami a cui si sottoponeva da una vita per la sua ipocondria, sopportava i suoi eccessi verbali contro tutti… Lei era la prima a dire che “Micol era una santa”.. Dunque cosa era mai questa rabbia improvvisa proprio contro di lei?

“Non dire queste cose davanti a Micol, – provò a dirle – proprio lei che è così buona, si occupa di tutto..”

La sua amica diceva infatti che ogni pratica amministrativa che riguardava la famiglia era sulle spalle di Micol, Annabella non interessandosi di nulla.

Quando Sara parlava di rogne o matasse da dipanare di cui si occupava per la sua casa, sia amministrative sia legali, oltre ai pagamenti di routine, Annabella le rispondeva che di quella materia lei non sapeva nulla: “Fa tutto Micol. Se ne occupa Micol.”

Proseguì nel suo sfogo spiegando con rabbia e frustrazione veementi cosa secondo lei sua figlia non aveva fatto ed avrebbe dovuto fare: “Ha lasciato quello che era ricco, bello, alto, con il padre importante per stare con quel nano, brutto e tirchio!”

Micol intervenne senza che Sara potesse sentirne la voce, se non lontana e non percepibile nel contenuto, ma la sua amica la informava continuando il suo sfogo parlando con entrambe: “Hai sentito cosa ha detto? No?! Dice che quello le faceva le corna! Ma tutti prima o poi ti fanno le corna!” Proferì strillando più forte.

Sara pensava che Annabella si era intromessa sempre troppo nella vita sentimentale dei suoi figli. E l’aveva consigliata tante volte di non interferire, tutt’al più consigliare, come aveva fatto lei con i suoi figli con molta cautela.

Ma Annabella era arrogante, pur essendo fragile emotivamente, incapace per sua stessa ammissione di valutare le persone, incapace a svolgere autonomamente una gran quantità di incombenze che la vita le metteva di fronte, deputando ad altri tali necessità, ella sparava a zero su tutti tranciando giudizi cattivi e negativi. Figli compresi.

Ma Sara non l’aveva mai sentita così. Nelle sue parole c’era una rabbia frustrata violenta. Aggiunse che odiava anche i figli maschi naturalmente, a maggior ragione perché non erano con lei così vicini come Micol, così attenti a tutti i suoi malesseri e malanni veri o presunti.

Rinfacciava a Micol occasioni perdute: “Poteva andare in Giappone!”  Ricordò con rabbia al cellulare l’occasione di uno stage di alcuni mesi, forse un anno, nel campo professionale di sua figlia.

Ma Micol aveva avuto timore di vivere lontano dal nido sicuro della famiglia, pur non essendo una famiglia serena dato lo scontro perenne fra i suoi genitori…

Occasioni perdute che ora la madre rabbiosamente le rinfacciava.

Sara non lo riteneva giusto, e provò a dirglielo, per il suo bene, come aveva sempre fatto in oltre mezzo secolo di amicizia. Con buonsenso e senza supponenza. Ma Annabella di botto le domandò: “Ma che tu hai telefonato a Brigitte?!” Il tono era  stranamente indagatore e sospettoso.

Sorpresa dalla domanda, dal tono e dal fatto che nulla c’entrava con il discorso rabbioso che stava facendo, Sara rispose comunque, abituata alle stranezze della sua amica e sempre incline ad assecondarla: “Le telefonai quando ci furono quelle manifestazioni dei “Gilets Jaunes”, per capire cosa ne pensava lei che è francese. Ma te lo avevo raccontato…” Stava per aggiungere che era successo almeno due anni prima anche se la domanda sembrava riferirsi ad un evento recente, ma ignorando l’irrazionalità di una simile domanda aveva risposto sull’unica volta che aveva chiamato l’unica nuora di Annabella, una donna dolce e gentile che lei aveva incontrato più volte, sia nella villa della sua amica che nella sua, quando Annabella era venuta a farle visita con tutta la sua tribù.

“Tu hai fatto lo stesso sbaglio di Arianna!” Interruppe ogni altra possibile parola di Sara Annabella con tono secco e perentorio.

Sara non fece in tempo a chiederle “Ma cosa c’entro io con Arianna” che quella disse che Micol le richiedeva indietro il cellulare, che peraltro era il suo, di Micol, e ripeté che le serviva per una telefonata di lavoro chiudendo di botto la telefonata.

Ora Sara di stranezze dalla sua amica ne aveva subite tante, e non solo stranezze… Ma davvero le sembrò che avesse toccato l’acme.

Arianna era sua cognata, moglie del suo unico fratello. Parlava malissimo anche di lei naturalmente e, in particolare, lamentava che sua nuora Brigitte la ignorasse mentre aveva una grande confidenza con Arianna. Annabella vedeva in ciò un tramare dietro le sue spalle in un comune sentimento ostile nei suoi confronti. Ogni incontro o contatto che avveniva fra Brigitte e Arianna lo vedeva come un complotto contro di lei.

Sara non poteva valutare quanto di ciò che Annabella le raccontava fosse interpretabile come la sua amica lo percepiva, non essendo dentro quei rapporti, ma che ora di botto e senza ragione alcuna le facesse una domanda incongruente e, ricevuta risposta su un fatto avvenuto due anni prima e di cui lei già era a conoscenza, la congedasse con un’affermazione perentoria quanto insensata, era folle.

Ciò nonostante Sara capì che il malessere esistenziale che aveva accompagnato la sua amica per tutta la vita e che negli anni si era acuito sempre più andava compreso e se possibile aiutato. Dunque le mandò dei messaggi Whatsapp su quel cellulare che divideva con la figlia, giacché lei, per sua ammissione, non sapeva usare quel tipo di messaggistica pur avendo un suo cellulare.

A questi messaggi Annabella rispose una sola volta con un laconico “Sì”, quando Sara le chiese se stava meglio, dopo averle scritto che le dispiaceva molto di averla sentita in quello stato e parlare così a Micol.

Dopo il silenzio. Totale. Anche quando Sara le inviò la foto di uno dei suoi nipoti che aveva festeggiato i suoi 18 anni.

Non le fece gli auguri per il suo compleanno, né aveva risposto neppure con un “Grazie” quando Sara glieli aveva fatti per il suo, che veniva qualche mese prima di quello di Sara…

Tenendo conto dei 60 anni di amicizia Sara le scrisse una e-mail sul suo indirizzo personale di posta dicendo che capiva che doveva proprio stare male dentro di sé, che rispettava il suo silenzio e che, comunque, se aveva bisogno lei era sempre disponibile per lei.

Ma passò un anno e Sara capì che quel silenzio era definitivo.

Pur non capendone il perché, Sara era tranquilla, giacché motivi attribuibili al suo sentimento di amicizia e al suo comportamento sapeva che non ce ne erano.

Ne parlò con la comune amica, anche questa amicizia risalente ai tempi della scuola: Doride.

Doride aveva con Annabella lo stesso rapporto che aveva Sara: ininterrotto dai 15 anni in poi, e intimo nelle confidenze e nel sostegno psicologico nei momenti difficili di tutte e tre.

“E’ anche questo un modo per punirsi.. Per farsi del male.. Peccato.. Una così bella amicizia!” Concluse con tono mesto Doride. E Sara pensò che forse aveva ragione.

Erano anni che Annabella soffriva di una infelicità cronica. Non che non ne avesse delle ragioni, ma nulla di assolutamente drammatico alla fine era accaduto nella sua vita. Nulla che non avesse attraversato, con fatti diversi e in alcuni casi anche più gravi, la vita di Sara e Doride.

Ma lei, pur soffrendo e lamentandosi di fatti e persone che la circondavano, evitava poi quello che la vita le offriva.

Ormai vedova di un marito che non le era mai stato bene, che l’aveva tradita un po’ per leggerezza e un po’ per vendicarsi del suo disprezzo verso di lui e la sua famiglia, era stata circondata da corteggiatori anche di pregio: un ex amministratore delegato di importanti aziende internazionali, un ingegnere colto e fine e un signore senza titoli accademici ma accettabile che amava per hobby cantare con una bella voce. Pur assediata da questi anziani spasimanti, vedovi anche loro, lei non ne aveva voluto nessuno.

Sara non capiva perché, dato che certo non aveva avuto una vita d’amore felice con Andrea, il marito, per cui essere fedele al ricordo…

Le aveva comunque manifestato la sua gioia di fronte ai suoi successi che, bisogna dire, lei non aveva cercato, e come sempre le aveva dato i consigli per il suo bene.

L’aveva esortata ad accettare l’ex amministratore delegato, sembrandole il più fine, ben messo ed elegante, scherzando anche sul fatto che possedeva due Ferrari sulle quali l’aveva condotta un poco in giro, anche a vedere la sua villa ai Castelli Romani. Infine l’aveva invitata in vacanza in Sardegna, dove aveva una casa e una barca, con i rispettivi nipotini più piccoli: lei una nipote e lui un nipotino entrambi in età scolare…

Ma Annabella dei tre preferiva il cantante, non bello, non fine come Livio, l’ex amministratore delegato, e disse: “A me piace. Peccato che è un poco sporcaccione.. Le piacciono le quarantenni..”

E Sara pensò che erano passati decenni ma Annabella non era cambiata. La vita non l’aveva cambiata.

Da giovane si era ostinata a correre dietro a chi palesemente era egoista, non l’amava e, pur prendendosi la sua verginità a soli sedici anni e continuando a prendersi il suo corpo, se ne infischiava della sua anima raccontandole dei rapporti che intratteneva con altre donne.

A Sara nascondeva tutto questo anche quando lei, essendo incappata in una infatuazione per un giovane che sentiva non confacente ai suoi valori, le confidava dei tentativi di costui di portarsela a letto e della sua resistenza a cedere a qualcosa per la quale sentiva non valerne la pena.

Annabella non cercò di dare a Sara buoni consigli, tacque sul fatto che lei si stava dando via con un egoista costruendo tutt’altra realtà.

Lui era “un vero prete”, diceva beffarda, e si sottraeva ai rapporti sessuali che lei, spregiudicata, invece avrebbe voluti.

La verità su Annabella e il suo egoista Sara la scoprì da sola sentendo casualmente uno scambio di frasi fra loro.

Nemmeno quella prima reticenza le aprì gli occhi sulla loro amicizia.

Annabella ascoltava i tormenti morali di Sara che la facevano riflettere su quanto lei aveva scelto di fare, ma stando ben zitta e guardandosi dal dirle di non buttarsi via con uno con cui non c’era un vero amore.

Tempo dopo, quando Sara le palesò che aveva capito la sua situazione,  le disse: “Quando tu mi facevi quei discorsi morali io ho pensato a me… Mi hai fatto riflettere..”

“Ma te ne sei stata ben zitta, però, ed io mi confidavo per cercare aiuto…” Pensò Sara.

E non era stata solo questa una manifestazione di slealtà da parte di Annabella.

Una volta la accusò di cose che lei non aveva mai detto, fatto o pensato, per pura cattiveria, e Sara si era messa a piangere di fronte a tale ingiusta accusa. Erano ancora adolescenti, anche se Annabella, come Doride, avevano entrambe un anno di più di Sara. Uscendo dalla casa della sua amica in lacrime, continuando a ricusare le cattiverie di lei, si rese conto dal sorrisetto divertito e maligno di Annabella, ancora nel vano della porta d’ingresso mentre Sara era già nel pianerottolo, che era ben cosciente che si trattava di accuse fasulle e che traeva divertimento dalla sua reazione dolorosa.

Perché dunque quell’amicizia era continuata per 60 anni? Ed ora a chiuderla non era lei, Sara, che si era sempre comportata lealmente con la sua amica, che aveva gioito delle cose buone che le erano capitate, che le aveva sempre dato buoni consigli, per il suo bene, di cui lei, per sua natura, non ne aveva mai seguito nessuno, ma era Annabella senza una causa scatenante?

Ma la causa, ora Sara cominciava forse a capirlo, era maturata a poco a poco nella testa di Annabella, forse per una sottile inconfessata invidia per quello che di buono Sara aveva costruito, a poco a poco, senza l’arroganza di Annabella, senza la superbia, con umiltà affrontando le situazioni difficili che le si erano presentate vivendo.

“Se è così, - pensava Sara – è veramente meschina. Non invidia chi le ha fatto del male, anzi, è arrivata ad umiliare la povera Micol chiedendo alla figlia fortunata di chi ha tradito la sua amicizia se le trovava un uomo! Come se Micol, colta e bella come è, avesse bisogno di un paraninfo!”

 

Le cose erano andate così.

Si era infatuata letteralmente dell’amicizia della moglie di un suo cugino. Erano sempre insieme e anche Sara a volte le aveva raggiunte al Parco con i rispettivi bambini.

In comune, e lo dicevano apertamente, avevano la stessa insofferenza per la rispettiva vita matrimoniale.

A volte si presentavano a casa di Sara, dall’altra parte della città rispetto alle loro abitazioni, truccate, agghindate per una passeggiata, dichiarando che i bambini l’una li aveva lasciati con la suocera, l’altra con la madre. Sara era felice di riceverle ma intorno aveva i suoi bambini che facevano merenda sbriciolando in giro, giocando e Annabella con un sorriso ironico diceva all’altra: “Hai visto? Mentre mangiano gli permette di scendere dalla sedia! I miei no! Debbono rimanere seduti quando fanno merenda, guai a loro, altrimenti sporcano in giro!”

E l’altra sorrideva fumando la sua sigaretta.

E ancora: “Guarda come è soddisfatta! Perché tu Sara sei soddisfatta di questa vita?”

“Si, - Rispondeva Sara col sorriso. - Lo sono, perché questa vita l’ho scelta, non me l’ha mica imposta qualcuno.”

“Hai ragione, - ammetteva con schiettezza Annabella – noi due invece non siamo soddisfatte, per questo usciamo per svagarci un po’. Comunque hai ragione tu, siamo noi che abbiamo sbagliato le scelte.”

E di questa reciproca insoddisfazione si era approfittata vilmente la cugina acquisita portandosi a letto Andrea, il marito di Annabella.

Ne era seguito uno scandalo familiare giacché Annabella soffrì molto del doppio tradimento e coinvolse tutto il parentado.

La cugina non fu cacciata dal marito, lui benestante lei assolutamente nullatenente, ma curata anche all’estero per una malattia immunitaria che le era in seguito sopraggiunta.

I suoi figli si erano sposati felicemente e l’avevano resa nonna di numerosa prole.

E è ad una di questi figli che Annabella, con una superficialità spiazzante per Sara, chiese se aveva qualcuno da presentare a sua figlia Micol, che invece una vera famiglia non se l’era mai costruita.

 

Sara si chiedeva cosa avesse in testa la sua amica.

Non comprendeva quello che le sembrava masochismo. Umiliava Micol come se non avesse doti a sufficienza per trovare da sola un compagno di vita, per di più lo chiedeva alla figlia di chi l’aveva tradita, umiliata ed offesa...

Dunque nessuna invidia per l’ottima riuscita esistenziale dei figli di colei che aveva commesso un adulterio a suo danno, ma ne aveva forse nei suoi riguardi?

Ripensò a certi episodi.

 

Aveva sentito una blanda ammirazione per suo figlio quando, con tocco e toga di Laurea, aveva laureato il suo primo studente di cui era relatore di tesi. Sara le aveva inviato il breve filmato del momento nell’Aula dell’Università e Annabella, seria, le aveva detto di fare i suoi complimenti a Giorgio. Ma non c’era stato altro. Sara l’aveva sentita come spenta, come se l’apertura franca e scherzosa che c’era sempre stata fra loro non ci fosse più.

Non aveva partecipato nemmeno alla sua contentezza quando sua figlia aveva dato una cena con i parenti più stretti per le sue nozze d’argento. E aveva sentito come una rattenuta sorpresa quando, sempre sua figlia, aveva fatto un viaggio in Giappone con tutta la sua famiglia.

Sara sapeva che Annabella riteneva un simile viaggio roba da ricchi dato che, molti anni prima, aveva così commentato l’invito a seguirla in Giappone fatto a suo fratello dalla donna che aveva all’epoca con lui una relazione: “E’ stata una presa per il culo.”

“Perché?”Aveva chiesto Sara non comprendendo.

“Perché lei va con i genitori che sono ricchi sfondati e a lui chi glieli da i soldi per pagarsi un simile viaggio?”

Sara, stupita, aveva obiettato che suo fratello non veniva da una famiglia di ricchi sfondati ma certo da una famiglia benestante a sufficienza perché suo padre avesse potuto aprirgli uno Studio di Avvocato in centro… Professionalmente poi egli guadagnava bene…

Il modo di pensare della sua amica la sorprendeva sempre per il suo distorto classismo.

A volte, nel passato, era stata insultante nei suoi riguardi in tal senso, usando esempi, che potevano richiamare la condizione sociale di Sara figlia di un impiegato dello stato, disprezzandoli come se non sapesse che quegli esempi che disprezzava appartenevano alla stessa condizione della famiglia di origine di Sara.

Impossibile che non sapesse che, esprimendo quei giudizi, offendeva lei e la sua famiglia. Sara aveva anzi la sensazione che lei se ne rendesse conto benissimo e che con cattiveria fintamente inconsapevole volesse umiliarla.

Ma Sara, lungi dal sentirsi umiliata come forse la sua amica avrebbe voluto, era serena della sua condizione, ed era stata sempre felice di tutto quello che la famiglia di Annabella aveva di più, ammirando quello che di bello avevano… Nel suo animo non conosceva il morso meschino dell’invidia per nessuno, a maggior ragione per le sue amiche a cui voleva bene...

Conosceva questo lato oscuro dell’animo della sua amica, che era venuto fuori molte volte in varie forme in 60 anni di amicizia.

Perché non aveva mai chiuso l’amicizia con Annabella? Se lo era chiesto a volte. Forse perché nei momenti difficili della sua vita però l’aveva ascoltata e supportata…

 

Ugualmente era stato con Doride. Ma il rapporto fra Annabella e Doride per alcuni aspetti era stato più confidenziale di quello fra Sara e Doride, dato che ciascuna sentiva la natura delle altre due e la natura di Annabella e Doride era più lieve, non severa come quella della loro comune amica Sara.

Così c’erano cose di Doride che Sara aveva appreso da Annabella e con Doride non ne aveva mai parlato, non per slealtà, ma per rispetto del suo già precario equilibrio.

Capitava poi che Doride desse per scontato che Sara sapesse questa o quella cosa triste e dolorosa che la riguardava e ne parlasse come se Sara l’avesse appresa da lei.

Così Sara sentiva di non potersi appoggiare nei suoi momenti dolorosi all’amica psicologicamente più fragile, Doride, mentre sull’ascolto e il commento di Annabella poteva contare.

Allo stesso modo Doride avvertiva un pudore a parlare di certe sue cose con Sara, forse perché la sentiva più rigida e severa sui comportamenti da tenere, sulla morale, lasciandosi andare invece con Annabella.

Comunque questo triangolo affettivo era andato avanti nel tempo per 60 anni!

Sicuramente Doride ed Annabella nelle loro lunghe telefonate parlavano anche di Sara, criticandone quelli che per loro erano difetti, e poi ciascuna a Sara faceva commenti sull’altra assente ma sempre avendo dentro di sé un affetto sincero.

Annabella, che sempre aveva avuto un linguaggio aspro, un giorno sorprese Sara dicendo: “Perché noi le vogliamo bene a Doride non diciamo che è una puttana!”

La parola cruda aveva colpito Sara, che però in cuor suo sapeva essere la realtà. In bocca ad Annabella, che di loro due era quella che aveva avuto una vita sentimentale più movimentata e che sulla vita sessuale era di più larghe vedute, non la scandalizzò, perché Annabella alla fine non aveva tradito il marito fedifrago neppure per rivalsa, pur continuando, per umiliarlo, a telefonare al suo primo amore anche davanti a lui e ai figli ormai adolescenti. Sempre inutilmente provocatoria.

Il crudo commento era dovuto alle confidenze “dongiovannesche” che Doride faceva ad Annabella.

Anche lei viveva un matrimonio infelice, con un uomo che non aveva la sua stessa sensibilità e che non aveva saputo comprendere le ferite gravi che ella si portava dentro dalla sua infanzia. Dopo un aborto procurato per l’impossibilità economica di mettere al mondo un terzo figlio quando il secondo aveva solo sei mesi, Doride era finita in depressione: il carico che si portava dentro dall’infanzia, sommato all’infelicità del suo matrimonio, aveva fatto sì che la rinuncia alla maternità a cui le ragioni economiche e pratiche l’avevano costretta costituisse un crollo definitivo. Finì in clinica psichiatrica.

Di quel periodo seppe poco anche Annabella. Solo la sciagurata madre di Doride le disse di aiutarla, una volta che Annabella l’aveva incontrata a casa di Doride ormai uscita dal breve ricovero in clinica.

Sara seppe qualcosa dal racconto di Annabella, giacché, molto presa dai figli e da mille incombenze, non vide Doride per un lungo periodo.

Quando tornò a parlarci Doride era in cura psicanalitica con uno psichiatra che lei chiamava confidenzialmente per nome: Manlio.

In seguito parlò alle due amiche della relazione amorosa che aveva intrecciato con Manlio. La severa Sara qui si scandalizzò: “Ma questo è pazzo! – Disse. – Da radiare dall’Albo! Uno psicanalista che va a letto con la sua paziente!”

Anche Annabella la pensava allo stesso modo, ma senza soprassalti moralistici.

Sara si preoccupava del male che quell’uomo faceva alla sua amica invece di curarla. E trovava ignobile la sua finzione quando il marito di Doride andava da lui per sapere a che punto stava la situazione psicologica della moglie.

Doride pensava che lui l’avrebbe sposata, era innamoratissima. Fece pressioni sul marito perché, data la loro annosa situazione dormivano in stanze diverse, trovasse un’abitazione  per creare una separazione di fatto.

L’uomo fece resistenza anche per ragioni strettamente economiche: lavorava solo lui, avevano due figli adolescenti, e già doveva pagare l’affitto del grande appartamento dove vivevano in una zona signorile di Roma.

Ma Doride era convinta che quello fosse il primo passo per poi avere il divorzio e sposare il suo psicoanalista. Anch’egli aveva un divorzio in atto da tempo e due figli adolescenti di cui la femmina, rivelava Doride, gelosissima del padre e a lei ostile.

Ma quando Manlio ottenne il divorzio sposò una sua collega e Doride rimase sola con le sue illusioni.

Nel commentare l’avvenimento fra loro Annabella e Sara espressero ipotesi diverse: Annabella iniziò con il dire che Doride si era sognata tutto, che non c’era mai stata alcuna relazione, ma si era trattato del classico transfert.

Sara opponeva la riflessione che se così fosse allora Doride stava proprio male, si era creata una realtà che esisteva solo nella sua mente e questo spiegava perché lo psicanalista si era sposato con la collega appena avuto il divorzio.  

In ogni caso entrambe non contraddissero mai i racconti di Doride, convenendo che, anche se si trattava di tutta una sua costruzione, se ne aveva bisogno come amiche che le volevano bene dovevano solo ascoltarla.

In seguito non spiegò mai perché, secondo lei, se Manlio la amava tanto aveva sposato la collega appena libero dal legame coniugale. Evitò sempre di spiegare il fatto così incongruente con tutto il castello di racconti di tale storia romantica che elargiva alle sue amiche.

Sara non sapeva cosa pensare, ma trovava che forse Annabella aveva ragione.

Sempre Annabella le riferì che Doride le aveva confidato di aver intrecciato una breve relazione sessuale con un giovane conosciuto durante una vacanza con sua madre e che costui l’aveva raggiunta a Roma ed avevano avuto un rapporto sessuale in auto.

Certo per la morale di Sara la sua amica era scesa sempre più in basso, ma dato che conosceva i suoi traumi infantili era verso di lei indulgente, ne provava pena.

Annabella le aveva riferito che, quando era andata a trovarla a casa dopo che era uscita dalla clinica e la madre l’aveva pregata di starle vicino, era perché forse aveva tentato il suicidio.

Doride a dodici anni aveva appreso in modo traumatico che suo padre non era suo padre, avendola sua madre concepita mentre lui era in guerra.

Essere amiche da un tempo così lungo era ormai più di una fratellanza e per questo la scelta di rompere in modo così drastico e definitivo solo con lei da parte di Annabella Sara lo trovava assurdo e, se i motivi erano quelli che pensava, non trovandone altri non avendo nulla da rimproverarsi ma, al contrario casomai da rimproverare, era triste, ma per lei, Annabella.

Doride continuava a sentirla e ridacchiando le faceva capire che la riteneva problematica e che era inutile cercare di capire.

Lei con un equilibrio psicologico così precario mostrava di ritenere Annabella una che stava peggio di lei.

Sara era serena, ma ogni tanto pensava alla sua amica perché non poteva smettere in fondo di volerle bene.

Suo marito, che Sara aveva conosciuto proprio tramite l’amicizia con Annabella, le aveva detto più volte in passato che non capiva come Sara avesse potuto perdonarla e continuare l’amicizia.

Ancora fidanzati egli le aveva detto che Pierguido, l’egoista che si portava a letto l’innamorata Annabella senza contraccambiare il suo sentimento e facendole paradossalmente le prediche dicendole che non doveva cedergli, gli aveva presentato l’amica della sua amante come una ragazza facile.

Sara era scoppiata a piangere come quella volta che Annabella l’aveva accusata di sentimenti e pensieri, inesistenti in lei, con un’espressione malignamente soddisfatta di averle provocato quella reazione di dolore, poi si era indignata chiedendosi come e a quale titolo quel Pierguido, che lei conosceva appena come il ganzo della sua amica, potesse con tanta leggerezza presentarla a qualcuno con quell’etichetta.

“Un bullo di periferia farebbe una cosa simile, con tanta leggerezza, senza conoscere una ragazza infangarne la reputazione…”

“E’ evidente, -  le disse il suo futuro marito – che questo Annabella gli aveva detto di te!”

Ed era stato proprio come il suo fidanzato aveva dedotto, anche se questa calunnia di Annabella detta dietro le sue ignare spalle quel Pierguido non avrebbe dovuto riportarla come certezza, non conoscendo Sara. Se fosse stato un uomo con un minimo di etica, ma la persona dimostrava già il suo squallore abusando dell’amore di Annabella senza corrisponderlo, ma mentre prendeva il suo corpo le faceva la morale e lei, nella sua umiliazione, aveva pensato di sollevarsi agli occhi di un tale miserevole personaggio calunniando le sue amiche, infatti oltre Sara aveva calunniato anche Doride, all’epoca vergine come Sara.

Davvero Sara non sapeva neppure lei come aveva potuto continuare quell’amicizia dopo tale scoperta.

“Ti rendi conto che se io avessi creduto a quella presentazione noi oggi non saremmo qui?”

Le aveva detto più volte nel tempo suo marito.

Carto Sara aveva avuto modo di conoscere il lato vile dell’animo della sua amica anche in precedenza quando, in preda alla paura di essere incinta di Pierguido, le chiese di accompagnarla in un ambulatorio privato a fare l’analisi per sapere se era incinta, non esistendo a quel tempo il test di gravidanza fai-da-te che venne in seguito acquistabile in farmacia.

Mentre sedeva accanto a lei in sala d’aspetto Sara si sentì proporre dalla sua amica, in preda ad una raggelante ansia, se poteva dare il suo nome a posto del proprio.

Pur nell’innocenza dei suoi 17 anni Sara rimase basita da una simile proposta: la sua amica le proponeva di dare il suo nome “perché altrimenti di quel nome ne sarebbe rimasta traccia che aveva fatto l’analisi per accertare una possibile gravidanza”.

“Ma… scusa e del mio non rimarrebbe traccia?” La richiesta era così vile che la stessa Annabella se ne rese conto, ma la paura di coprire ciò che lei era diventata era così forte da indurla a tentare di nascondersi dietro il nome della sua innocente amica.

Lo stupore di Sara ad una simile richiesta, ovviamente ricusata, non la indusse però ad allontanarsi da quella amicizia.

In seguito, negli anni, questo lato vile, calunnioso, della personalità di Annabella si era manifestato ancora in piccoli episodi in cui cercava di mettere in cattiva luce le sue due amiche, in particolare Sara sempre così limpida e lineare per carattere.

Sara stessa non sapeva perché in fondo l’aveva perdonata e aveva continuato a volerle bene: forse perché la sentiva più debole di lei.