domenica 24 gennaio 2021

THOMAS BERNHARD – “Piazza degli eroi”

 

Bernhard, “Piazza degli eroi”

THOMAS BERNHARD – “Piazza degli eroi” – Garzanti

Traduzione di Rolando Zorzi

Piazza degli eroi

“E’ tutto in via di estinzione”

Prima di tutto qualche data, per cogliere appieno l’importanza di “Piazza degli eroi” (“Heldenplatz”) all’interno della produzione teatrale, ma anche più genericamente letteraria, bernhardiana. L’opera viene pubblicata nel 1988 e rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 4 novembre dello stesso anno, per la regia di Claus Peymann. L’ultimo romanzo di Bernhard, “Estinzione” era stato pubblicato due anni prima, nel 1986. Il 12 febbraio 1989 Bernhard muore. Siamo quindi giunti con questo dramma alla conclusione della parabola teatrale del suo autore, ovvero, come ben sottolinea Eugenio Bernardi, al punto “massimo di quella provocazione cui mirava da sempre il suo teatro”. Esattamente come, sul piano della narrativa, “Estinzione” rappresenta il tentativo, attuato mediante le raffinate armi letterarie a cui questo autore ha abituato i suoi lettori, di cancellare, di estinguere, uno per uno, i temi portanti della sua architettura artistica. Bernhard conclude quindi portando al massimo grado possibile la sua arte della provocazione e della esagerazione, consapevole che, esagerando la realtà, può renderla insopportabile e, quindi, distruggerla. Ci si può chiedere se fosse consapevole dell’avvicinarsi della fine, ma la sua stessa biografia ci dice che Bernhard ha sempre vissuto sapendo di portare con sé la propria morte, di allevare dentro di sé la propria malattia mortale e quindi questa è, in definitiva, una domanda inutile.

L’aspetto più apertamente provocatorio della pièce consiste nei violenti attacchi che contiene, attacchi per nulla velati e sottintesi, ma diretti e ampiamente ripetuti, nei confronti dello stato austriaco, dei suoi rappresentanti, delle sue istituzioni e, in definitiva, dell’intero popolo austriaco. Lo spunto per la scrittura del dramma è il cinquantenario dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista e la tesi sostenuta da Bernhard è che, dopo cinquant’anni, complice lo stato, il nazismo e l’antisemitismo stanno nuovamente diffondendosi, senza trovare ostacoli apparenti, tra i politici più potenti, nei luoghi dell’arte e della cultura e, infine, tra la stessa popolazione. Si va dagli accenni velati, alle battute ironiche, alla constatazione amara fino alla vera e propria invettiva (e Bernhard sa come dosare tutto questo e come variarlo per suscitare le reazioni del pubblico). E’ un crescendo che, dopo gli accenni contenuti nella prima scena, si distende, diventando sempre più esplicito nella seconda e nella terza (fino alla splendida conclusione che non svelo, per non rovinare ai futuri spettatori gli effetti dell’inventiva di un vero animale da palcoscenico). E’ significativo il fatto che l’azione scenica di questo dramma, a differenza di quanto avviene nelle altre opere teatrali di Bernhard, dove sono ridotte al minimo le indicazioni di luogo e di tempo, sia ben collocata nel tempo e nello spazio: il testo reca “Vienna” come indicazione iniziale, seguita dalla data, “Marzo 1988” (il 15 marzo 1938, Hitler annuncò nella centralissima Heldenplatz di Vienna alla folla acclamante l’Anschluss dell’Austria alla Germania); le indicazioni sceniche, inoltre, collocano chiaramente la I e la III scena all’interno di un appartamento che si affaccia sulla Heldenplatz e la II nei giardini pubblici del Volksgarten; dai personaggi vengono infine ripetutamente citati il Burgtheater, la Ballhausplatz, su cui si affaccia la Cancelleria federale, il Parlamento, l’Università, la Biblioteca nazionale, oltre alle più importanti vie e piazze di Vienna. Insomma, una serie di accurate indicazioni spaziali e una precisa collocazione dell’azione scenica nel tempo, inusuali per lo stile di Bernhard che sembra in questo modo perseguire un intento di chiarezza e trasparenza e assicurarsi che il suo estremo giudizio sull’Austria venga colto pienamente. Si va da considerazioni generiche come “…che io sia austriaco è la mia più grande disgrazia”, a constatazioni esplicite: “oggi la situazione è veramente quella/ che c’era nel trentotto/ a Vienna ci sono adesso più nazisti/ che nel trentotto/ lo vedrai/ come tutto finirà male/ per capirlo non c’è mica bisogno/ di una mente tanto acuta/ adesso stanno venendo fuori di nuovo/ da tutti i buchi/ che più di quarant’anni fa erano stati tappati/ basta che ti metti a parlare con uno qualunque/ e non ci vuole tanto/ perché salti fuori un nazista”;’da attacchi diretti alle istituzioni culturali: “pure l’università è piena di idioti/ e fra questi lui ha sopportato per ventanni/ degli imbecilli della Stiria e degli idioti di Salisburgo/ come colleghi/ la vita intellettuale in questa città/ è pressochè soffocata nell’infamia/ e nell’ottusità dei suoi trafficanti di posti/ Dei miei colleghi il novanta per cento sono nazisti/ diceva il babbo/ o rappresentano l’ottusità cattolica/ o quella nazionalsocialista/ beceri e infami sono tutti quanti/ la città di Vienna è tutta un’infamia ottusa”, a vere e proprie accuse rivolte agli uomini di potere: “il presidente della repubblica un borghesuccio furbo e falso/ e tutto sommato un tipo deprimente/ il cancelliere uno scaltro maneggione politico”, “stia un po’ a sentire il cancelliere federale/ quello non riesce neanche a finire una frase correttamente/ e neppure gli altri/ da tutta quella gente non vien fuori che immondizia/ quel che pensano è immondizia/ e anche il modo in cui lo dicono è immondizia”, “Herr Landauer che ne dice vinceranno i rossi alle prossime elezioni/ quelli non hanno proprio carattere/ e i neri sono tutti degli imbecilli/ e le porcate sono la forza motrice di tutti quanti i partiti/ Se oggi in Austria lei dà il voto a un uomo politico/ può star sicuro che dà il voto a un porco corrotto”, fino ad investire l’intero popolo austriaco con un astio e una violenza verbale troppo radicali per non indurre nello spettatore almeno il sospetto che al fondo di tutto ciò ci sia una cocente delusione, un desolato rammarico nei confronti di una patria forse molto amata e per questo dolorosamente ripudiata: “mi meraviglia soltanto che tutto il popolo austriaco/ non si sia suicidato da un pezzo/ ma gli austriaci nell’insieme in quanto massa/ oggi sono un popolo brutale e stupido/ In questa città uno che ci vede dovrebbe essere/ ventiquattr’ore su ventiquattro in preda a raptus omicida/ Quel che è rimasto a questo povero popolo minorenne/ non è altro che il teatro/ L’Austria stessa non è altro che un palcoscenico/ sul quale tutto è depravato deteriorato e decomposto/ una compagine di comparse detestata da se stessa/ fatta di sei milioni e mezzo di abbandonati a se stessi/ sei milioni e mezzo di dementi nonché pazzi furiosi/ che ininterrottamente gridano a squarciagola reclamando un regista/ E il regista verrà/ per spintonarli definitivamente giù nel baratro”. “Piazza degli eroi” resterà in scena al Burgtheater fino alla morte del suo autore, provocando, come si può facilmente intuire, un seguito di attacchi a Bernhard da parte di tutta la stampa e di molti esponenti politici, tanto che lo scrittore, come risposta, disporrà nel suo testamento il divieto di stampare, rappresentare o leggere in pubblico i suoi scritti in territorio austriaco per la durata dei diritti d’autore. Un’uscita di scena ad effetto, un vero “colpo di teatro” per un autore così enigmatico, disturbante e delirante, perfetta in fondo per chi ha potuto scrivere, a ragion veduta, molte volte anche se in forme diverse, una battuta come questa: “Ah, la vita è proprio tutta una commedia sapete”. Detto tutto ciò, sarebbe veramente limitante ridurre “Piazza degli eroi” al suo contenuto provocatorio e collegare questo dramma alle sole polemiche che ha scatenato. Non ho mai avuto l’opportunità di vederlo rappresentato, ma credo di essere in grado di cogliere tutta la sua grandezza anche mediante la sola lettura. Per l’ennesima volta, quella definitiva, Bernhard mette in scena l’assurdità e l’ottusità brutale del mondo, con il realismo lucido che gli è proprio e con l’intransigenza che ha sempre caratterizzato la sua arte. Il suicidio dell’intellettuale ebreo, Professor Schuster, che, tornato a Vienna cinquant’anni dopo l’Anschluss, non riesce a sopportare la situazione dell’Austria e si getta dalla finestra, diventa il pretesto e l’occasione, al di là della provocazione, per attuare quella variazione di temi in cui Bernhard è maestro; ecco allora entrare di nuovo in scena la dissoluzione familiare, l’incomunicabilità, l’incapacità di adattarsi ad un luogo che diventa eterna e frenetica preparazione di viaggi in fondo privi di una meta soddisfacente, le fissazioni e la reiterazione di gesti quotidiani che finiscono per rappresentare l’unica certezza e l’unica via di scampo, il rifugio nell’arte, sentita alternativamente come consolazione e disgusto, l’apparente assenza di sentimenti (ma anche qui, folgorante, inaspettato e per questo commovente, quell’intercalare, raro ma a me tanto caro, quel “bambina mia”, unica apertura verso un mondo di sentimenti negato a cui si può solo alludere, che, posso sbagliarmi, è presente in quasi tutte le opere teatrali di Bernahrd) e, infine, quel perenne senso di inquietudine, di “perturbamento”, la cifra e l’identità del teatro bernhardiano che, ancora una volta, è teatro di parola. E se fondamentale nel teatro è il ritmo, è proprio nel ritmo delle parole, che spiccano nella staticità dell’azione, che va ricercato il valore anche poetico dell’ultimo gesto teatrale di Bernhard, quello su cui cala il sipario della sua vita d’artista.

Con la chiusura dei Teatri causa pandemia ho potuto gustare il dramma di THOMAS BERNHARD in un allestimento di Roberto Andò che la RAI ha mandato su canale 5.

E' la Piazza degli eroi, la Heldenplatz di Vienna, dove nel '38 una folla di deliranti si accalcò per festeggiare l'annessione dell'Austria alla Germania nazista. E dove la moglie di Schuster, interpretata da Betti Pedrazzi, in quella nuova casa, anche 50 anni dopo, continua a sentire le urla degli austriaci inneggiare a Hitler (nel cast anche Silvia Ajelli, Paolo Cresta, Francesca Cutolo, Stefano Jotti, Valeria Luchetti, Vincenzo Pasquariello, Enzo Salomone).

Renato Carpentieri nella parte di Shuster, il fratello del suicida, a cui l'Autore affida il suo caustico pensiero sull'Austria degli anni ottanta del secolo scorso, che mi fa pensare anche all'Italia di oggi per il giudizio sulla mediocrità dei politici e degli universitari .
L'unica cosa che penso e spero per il mio Paese è che non gli appartenga l'antisemitismo che 
BERNHARD denuncia per la sua Austria

Renato Carpentieri: eccezionale

  

Tutti gli attori, bravissimi, in scena







MADRE Cap. I

Capitolo I

Il telefono squillò. Lei andò a rispondere. 
"Signora Rrrita? Sono Suor Fernanda." La pressione prolungata sulla R e la o chiusa le evocarono il mondo dove viveva sua madre ancora di più del nome di chi la chiamava.
Quella voce, proveniente da quel luogo, le provocava sempre un'aspettativa ansiosa di notizie non buone o, quantomeno, di chiamata a risolvere problemi piccoli o grandi di sua madre.
"Buongiorno sorella. Mia madre ha qualche problema?"
"Io sono stata una settimana in Sardegna, sono tornata oggi, e ho trovato questa donna deperita."
Il tono della suora che fungeva da "femme de chambre" per sua madre era serio e con un sottofondo di meraviglia.
"Ma deperita come?" Chiese lei senza capire, ma già in ansia.
"Dimagrita, questa donna in una settimana è dimagrita. Io l'ho lasciata una settimana fa ed oggi la ritrovo dimagrita in modo non normale.."
Cercando nella mente Rita trovò il ricordo recente di suo figlio che, come accadeva ogni tanto, andava al posto suo ad accompagnare la nonna a ritirare la pensione all'Ufficio Postale.
"Ma non più tardi di dieci giorni fa è venuto mio figlio con la sua fidanzata per accompagnare la nonna a prendere la pensione e non mi ha detto niente.."
"E' successo tutto in questa settimana, io sono mancata solo una settimana."
"Ma perché la suora infermiera, suor Virginia, non mi ha avvertito?" Chiese la donna, cercando di mettere in chiaro nella sua mente la situazione.
Chiuse la telefonata con la suora ringraziandola di averla avvertita e, nel contempo, dicendole di chiamare il dottore a cui sua madre era iscritta. Un Medico di Base che bisognava stanare dal suo studio per fargli fare una visita domiciliare, in barba alla convenzione con il Servizio Sanitario in cui era scritto che fra i suoi compiti c'erano anche le visite domiciliari, qualora il paziente non fosse in grado di raggiungere il suo studio per serie ragioni di salute.
Andò poi a cercare suo figlio Diego e lo trovò nella sua stanza che stava studiando con Rachele. Seguivano lo stesso Corso di Studi all'Università.
"Scusate ma siete stati da nonna venerdì della settimana.. non questa appena passata.. quella ancora prima no?" 
I due giovani la guardarono interrogativamente dopo aver staccato gli occhi dai libri: "Sì, certo. Perché cosa è successo?" Chiese suo figlio, già in ansia anche lui. Diego era sensibile e conosceva ogni aspetto dei problemi che sua madre viveva per quella nonna che tanto li amava e che lui amava.
"Mi ha appena chiamato suor Fernanda che dice di essere stata via una settimana, sai loro ogni tanto hanno periodi di riposo e lei era andata in Sardegna, penso alla Casa Madre, e ha trovato nonna molto dimagrita. Come era dieci giorni fa?"
Lesse nell'espressione di suo figlio la sua stessa meraviglia: "Ma normale.. Come sempre."  Guardò come per conferma Rachele che annuì.
"L'abbiamo accompagnata all'Ufficio Postale facendo la fila per lei e poi lei ha preso la sua pensione e - sorrise guardando la fidanzata - ha provato come al solito a darmi dei soldi e al mio solito rifiuto ha provato a metterli in tasca a Rachele."
L'immagine tenera della nonna che in mezzo alla gente, incassata la pensione, voleva dare i soldi ai due ragazzi, più che suscitare imbarazzo faceva, appunto, tenerezza, e il rifiuto era una consuetudine a cui ci si sottraeva a stento e, alla fine, lei riusciva a volte ad imporre le sue piccole o grandi donazioni ai nipoti o alla figlia, che cedevano per farla felice.
"Debbo andare subito. Debbo vedere con i miei occhi." Disse con una rattenuta angoscia. 
Rifiutò l'offerta di Diego di venire con lei, disse che restassero pure a studiare. Sarebbe andata lei, come sempre per i bisogni di sua madre, facendosi aiutare solo ogni tanto o da Diego o da Monica, la figlia femmina, per non prendere troppi permessi al lavoro, ma solo per non farla andare da sola a prendere la pensione, dati i pericoli di scippi, e ancora più raramente per qualche esame diagnostico dato che, per tutto ciò che riguardava la sua salute, Rita voleva essere in prima persona per rendersi conto bene delle cose.
Aspettò di sapere se il Medico recalcitrante era andato a visitarla. Suor Fernanda la richiamò per dirle, con voce grave, che il dottore era venuto ed aveva detto che bisognava portarla in ospedale, sì certo aveva lasciato il foglio per il ricovero.




Povera Pazza e la legge del contrappasso - Dalla Raccolta "Novelle Nuove"

Povera Pazza e la legge del contrappasso

Raccolta "Novelle Nuove"


Capiva con chi stava parlando al telefono da come si esprimeva: distingueva anche con quale dei figli, perché a ciascuno parlava secondo come era quel figlio.
Con la figlia aveva sempre una nota serena, lieta.. Con uno dei figli maschi era sempre conciliante, essendo il più difficile da prendere per i mutevoli umori. Con il più piccolo era normale, essendo quel figlio un carattere sereno e molto preciso.
Ma capiva, da come parlava, anche se all'altro capo del filo c'era un suo amico e, dagli argomenti, quale amico.
Non che si mettesse ad ascoltare, le bastava sentire passando oppure poteva trovarsi nella stessa stanza quando qualcuno chiamava al telefono e lui rispondeva.
Forse erano i tanti anni trascorsi insieme o forse era solo la sua empatia o entrambi.

Squillò il telefono diretto. Lui rispose. Da come dovette difendersi dal non essere stato trovato al cellulare o ad altro telefono pensò fosse il figlio polemico, poi capì.
Cercò di seguire la televisione accesa continuando a mangiare. Erano a pranzo. Pezzi della breve conversazione le arrivavano lo stesso nonostante cercasse di non sentire, avendo capito chi fosse.
"Sono vecchio, sì.." Rispondeva lui gentilmente ironico.
"Vai a ballare? Ne sono felice!" 
"Dove? In una casa o... Ah, in un locale! Bene, divertiti!"
"Certo, io sono vecchio, vado a cena da mia figlia.. Cosa dici? Tu sei giovane? - Rise senza cattiveria - Ma certo, sei giovane e dunque fai bene ad andare a ballare. Auguri anche a te!"
Chiusa la telefonata rialzò il volume del televisore e guardò verso di esso riprendendo a mangiare.

Lei lo guardò e con tono neutro ma annosamente comprensivo disse: "Tua sorella."
"Si, - sorrise lui continuando a seguire con gli occhi lo schermo televisivo - ha detto che va a ballare perché lei è giovane mentre io sono vecchio. Certo ho compiuto da poco 80 anni.."
"Ma lei ne ha 76!" Pensò la moglie che ne aveva 73, ma non disse niente. Come al solito c'era ben poco da dire.
Suo marito portava visivamente così bene i suoi 80 anni che quando li dichiarava suscitava in tutti meraviglia e complimenti.
La Povera Pazza, come ormai dentro di sé la chiamava impietosamente Anna, la moglie, aveva inanellato la sua vita di scelte che erano state altrettante zappate che si era date sui piedi da sola.
Pensò che quel dichiararsi giovane a quella tarda età, più che felicità, esprimeva una reazione ad una inevitabile depressione nel ritrovarsi sempre da sola nelle Feste principali. Aveva iniziato ormai anziana a cercare gruppi di aggregazione umana pur di non vivere nel deserto che si era creata intorno nei rapporti affettivi veri. Li chiamava amici ma erano solo compagnie superficiali che nulla sapevano di lei, di quello che era stata nella sua vita.

Anna aveva molti cari amici e amiche. Le veniva naturale legare con le persone. Era vera, semplice, naturale, curiosa e interessata agli altri, aperta a parlare di sé, anche dei suoi problemi familiari o di salute, pronta ed interessata all'ascolto degli altri e dei loro problemi.
Quando conobbe Povera Pazza, che si chiamava Liliana, le sembrò naturale che diventassero amiche ma si trovò davanti una persona respingente che assumeva atteggiamenti di superiorità senza ragione alcuna. Si sentì dire: "Ho tre anni di più, non è possibile essere amiche, tre anni di più è una generazione!"
Anna era stupita. Aveva un paio di amiche che avevano giusto tre anni più di lei.
Poi l'aggredì perché si scoprì che covava odio verso chi aveva una cultura che lei non era stata in grado di raggiungere.
Complessi di inferiorità l'abitavano inducendola ad atteggiamenti di importanza fondati sul nulla, coadiuvata in questo da una madre profondamente stupida che credeva Liliana importante perché aveva un lavoro di segretaria in una filiale di una Società con sede principale a Milano, e diceva che sicuramente il fatto che avesse la patente di guida doveva suscitare invidia in chi non l'aveva ancora conseguita, magari solo perché non aveva raggiunto l'età minima di legge per prenderla...
Anna non aveva mai incontrato persone di così limitata visione della realtà e meschinità di pensiero.

Nessuno che sia intelligente coltiva complessi di inferiorità. Chi è intelligente cerca di raggiungere i propri obiettivi, magari con fatica, ma non si crogiola nei propri limiti odiando chi ritiene possa avere qualità che vorrebbe per sé, non cerca di porvi rimedio assumendo per reazione atteggiamenti di superiorità senza basi e senza costrutto.
Anna non pensò subito che fosse malata. Lo capì a poco a poco. Fino alla diagnosi che venne però molto tempo dopo.

L'atteggiamento verso suo fratello, più grande di lei di quattro anni, così dotato di volontà da conseguire una laurea in Ingegneria Aerospaziale pur lavorando in fabbrica per aiutare il bilancio familiare, era stato di orgoglio finché questi non aveva trovato finalmente l'amore in Anna.
A quel punto era iniziata un'insana gelosia che, se nella madre poteva spiegarsi con un complesso edipico rovesciato, Anna pensò "Ha il complesso di Giocasta" scoprendo poi, leggendo libri di Psicologia, che esisteva realmente, in Liliana si spiegava solo nel fatto che ormai quel fratello era di quella donna e non più il faro intellettuale di una famiglia altrimenti senza luce culturale.
Oltre lei anche il fratello minore aveva faticato negli studi.
Attaccava criticamente il fratello su ogni cosa ed era ostile con la sua fidanzata poi moglie.
Anna assisteva a offese continue nei suoi riguardi e critiche in quelli di suo marito per lei inaccettabili, ma volendo bene a lui e non volendo creare lacerazioni non chiese mai a suo marito di troncare quei rapporti umilianti.
Lui non si spiegava quell'atteggiamento né sviluppava un comprensibile rancore. I suoi genitori, d'altra parte, lungi dal correggere la Povera Pazza l'assecondavano difendendola da ogni possibile reazione del fratello maggiore.
Anna trovava tutto questo patologico visto che suo marito aveva provveduto ad aiutare il padre nel mantenimento familiare per diversi anni e si era laureato spesandosi totalmente per i suoi studi.

I passaggi illogici in Liliana erano la normalità. Tre anni di più costituivano una generazione di differenza aveva detto, non avendo altra superiorità da contrapporre ad Anna di cui avvertiva differenze da sé nei modi, nel linguaggio, nel comportamento, di cui Anna stessa non si rendeva conto, ma lo capì a poco a poco assistendo a continue sceneggiate recitate dalla Povera Pazza.

Esempio: desco domenicale  a cui suo marito non poteva sottrarsi per la abnorme suscettibilità della madre.
Liliana rivolta ad Anna: "Tuo marito ti dovrebbe dare lo stipendio di infermiera, donna di servizio e prostituta, perché una moglie è tutto questo!" Il tono è sempre di grande sicurezza e superiorità.
Ha da poco lasciato un fidanzato che, si è appreso, le diceva cose umilianti del tipo: "I miei genitori non possono venire a conoscere i tuoi che non hanno neppure dei quadri alle pareti!"
"Ma che volgarità! - Pensa Anna per l'uscita della Povera Pazza, stupefatta sia dalla miseria di un simile pensiero sia dal mancato richiamo dei genitori .
Poi pensa che lo sfumare di un matrimonio atteso per cinque lunghi anni con quello che la madre ritiene un ottimo partito le ha provocato la sindrome "della volpe e l'uva": ciò che si vorrebbe ma non si può avere si disprezza, e a farne le spese è sempre Anna.
"Questa folle perché non dice anche alla madre queste squallide assurdità? Oppure a Caterina, la moglie del fratello minore..."

Ma Caterina era stata per la Povera Pazza un partito preso! Non bastando alla sua rabbia quello che faceva da sola, cercò nella bruttina fidanzata del fratello minore un'alleata per criticare e sminuire Anna e suo fratello colpevole di amarla.
Caterina non le provocava le stesse sofferenze mentali dovute all'invidia, sia per l'aspetto, sia perché compagna del fratello ritenuto meno intelligente del maggiore.

Iniziarono poi insinuazioni continue sulla fedeltà del marito di Anna, senza alcun fatto che le alimentasse, se non il desiderio pazzo e malato di Liliana che così avrebbe voluto che fosse.
Il lavoro del marito di Anna doveva svolgersi anche di notte per particolari misure tecnico scientifiche che, peraltro, dovevano avere continuità e dunque non conoscevano interruzioni di giorni festivi. Questo induceva la malata Liliana a fare ammiccanti insinuazioni su "chissà cosa invece faceva di notte suo fratello". Anna era stupefatta non più dall'evidente volontà di colpire lei calunniando il fratello, quanto dall'ignoranza di Liliana che, pur essendole nota, non finiva mai di stupirla. Eppure gente non particolarmente scolarizzata trovava normale lo svolgersi del lavoro del marito di Anna.
Per contro, del tutto casualmente, scoprì che anche il fratello minore a volte svolgeva lavoro notturno, pur facendo tutt'altra professione in cui tale evento appariva meno spiegabile.
Nella mente della povera pazza c'erano due canali di interpretazione della realtà totalmente separati: gli stessi eventi, che in un fratello venivano interpretati in senso negativo, in quello ritenuto meno dotato non erano messi in rilievo.
Quando questi dovette stare due mesi lontano da casa per un lavoro in Svezia "le svedesi erano diventate tutte brutte", secondo la malata.
Bisogna dire che se Liliana era così i suoi genitori che non la correggevano non erano da meno.
La madre, quando il suo figlio maggiore dovette stare negli USA per alcuni mesi per lavoro, teneva su il morale della nuora Anna, incinta e con due bambini piccoli, dicendole cose dello stesso tenore delle insinuazioni di sua figlia
E che dire del padre: un omino completamente succube di queste due donne senza opinioni personali.
Eppure Anna non disse mai che era pazzo.
Ma ci pensò Caterina che, pur assecondando per opportunismo quella triste compagnia che la favoriva, ne vedeva l'anomalia e, un giorno, disse che Liliana era pazza, malata e il padre pure. Anna pensava che Caterina era squallida nel suo comportamento verso di lei e verso suo marito, tenuto insieme al suo altrettanto meschino consorte per  compiacere Povera Pazza, che in cambio elargiva loro aiuto e favori di ogni tipo, oltre alla sconcertante negazione della realtà negativa che li riguardava, sostituita da lodi per ogni cosa li riguardasse, ma era ben conscia dello stato di quelle persone pur servendosene cinicamente.
In quella circostanza il marito di Anna intese difendere solo suo padre dicendo che lui non era pazzo.

La non reazione del fratello maggiore alle critiche e agli affronti, perché superiore a quella meschina follia, ma forse anche vile nel non voler affrontare inevitabili scontri, e la volontà di Anna di non abbassarsi al livello meschino di quella mente e di coloro che, per interesse, la assecondavano, fecero sì che Liliana, come una mosca cieca impazzita, continuasse per una vita intera a mantenere i due canali di interpretazione della realtà sui due fratelli ben distinti.

Anna a poco a poco prese le distanze dalla Povera Pazza osservandone le scelte e le follie che diceva, le realtà che negava e quelle che inventava deformandole per vantare la vita dei componenti della famiglia di quel fratello che cinicamente la sfruttava. Finché crollò, non riuscendo più, anche per l'età, a star dietro a tutti i carichi che per quella famiglia si prendeva. Finì in clinica psichiatrica e la diagnosi fu psicosi e la cura l'elettroshock.
"Per una vita intera ho subito con mio marito questo rapporto insopportabile con una pazza." Pensò Anna, rendendosi conto che averla appellata "Povera Pazza" non era cattiveria, ma clinica realtà.
Questa diagnosi però non creò in Anna alcuna compassione.
"Ci sono persone malate che non proferiscono malvagità in continuazione e sempre verso le stesse persone, non è comunque meritevole di pietà fino al punto di cancellare un atteggiamento univoco durato una vita intera."
Non reagire mai, assistendo ad una serie infinita di comportamenti ingiusti, meschini, miserabili e calunniosi era stata una scelta per Anna ma l'aveva resa indifferente a quella folle persona.

Sempre pronta a criticare ferocemente Anna e suo marito trovò ogni giustificazione al fatto che il fratello minore, a cui faceva ogni tipo di servigio, tipo lasciare l'ufficio per andare a preparare il pranzo per la moglie di lui, che lavorava solo mezza giornata, per poi tornare al lavoro fino a sera, non si trovò quando il comune padre morì. Mentre il marito di Anna e uno dei loro figli lo assistettero per tutta l'agonia.
Il giorno del funerale alcuni parenti ignari si rivolsero a quel figlio di Anna perché accompagnasse a casa la Povera Pazza facendole compagnia. Anna guardò la figlia del fratello minore che taceva senza avere la dignità di dire: "No, vado io. Noi non c'eravamo quando nonno è morto, c'era lui che gli è stato accanto fino alla fine, ora tocca a me." Né la madre, Caterina, a cui la Povera Pazza preparava i pranzi e anche la cena da portarsi a casa, disse nulla. Né suo marito che con l'intera famiglia era stato assente, in vacanza..
Anna allora, di fronte a quella miserabile vigliaccheria, disse  qualcosa per difendere suo figlio, traumatizzato da un'agonia urlata, devastante, poche parole trovate al momento per impedire quell'ennesima ingiustizia. La Povera Pazza fece finta di nulla, né richiamò nessuno di quegli egoisti al dovere di restituire un po' di ciò che prendevano da lei.
Lo schifo di quelle finzioni era indimenticabile per Anna.
Ma le parole trovate al momento da Anna risparmiarono a suo figlio quell'ennesima ingiustizia.

La maldicenza in cui aveva trovato sfogo tutta la vita la sua malata invidia veniva ascoltata da Caterina con piacere. Senza arrivare alla distorsione della realtà della Povera Pazza, essendo una persona sana, Caterina era però piccola e meschina. Aveva dunque le sue piccole malignità.
Quando si sposò la figlia di Anna, mentre gli sposi si allontanavano dal ricevimento di nozze, disse con un maligno sorriso: "Speriamo nella durata"
La pazza Liliana mise del suo dicendo con un sorriso di superbia che la nipote, figlia di Caterina, "farà un vero matrimonio", rivelando così implicitamente che non riteneva un vero matrimonio quello contratto dalla figlia di Anna essendo Matrimonio Civile, dato che gli sposi erano entrambi non credenti.
Forse esiste una legge del contrappasso nelle umane cose perché il matrimonio della figlia di Anna andò benissimo e durò felicemente e a lungo.
Quando si sposò la figlia di Caterina con un divorziato, con matrimonio in Chiesa annullato dalla Sacra Rota per la facciata, giacché già vivevano insieme da anni ed avevano addirittura un figlio grandicello, tutto normale: nessun commento malevolo, anzi! Quello fu per la Povera Pazza "il vero matrimonio"!
Anna fino a quel momento ancora comunicava nel suo modo trasparente, che usava con tutti anche con quelle persone, non avendo nulla da nascondere, ed aveva detto della separazione poi seguita da divorzio dei genitori di suo genero.
La Povera Pazza un giorno aveva commentato con soddisfazione che "lì era tutto uno sfacelo".

Al pidocchioso pranzo di nozze della vantata nipote, Anna vide per la prima volta i suoceri di lei: per tutto il tempo stettero seduti distanti, senza scambiarsi nemmeno un segno di conoscenza, ma Liliana non disse nulla su quella evidente anomalia. I pettegolezzi Povera Pazza li faceva solo da una parte: quella che riguardava il suo fratello maggiore, inventando ciò che non c'era, mettendo in cattiva luce realtà come il divorzio dei suoi consuoceri, ma tacendo sull'evidenza che si rivelò agli occhi di Anna durante quel misero rinfresco. Misero per taccagneria, come era stato per la Prima Comunione di quella nipote, non certo per mancanza di mezzi. Un modo di essere, di quella cognata che dominava sul marito, che dimostrava la sua assenza di un minimo di signorilità, nonostante pretendesse di ostentarne una presunta, seguendo in modo grottesco mode che lei riteneva fossero indice di finezza.
Per tutto il tempo dello scarso rinfresco la consuocera di Caterina la intrattenne vantando la sua gioventù in quello che doveva ritenere un quartiere altolocato: Ponte Milvio.
Oggi famoso per un film e un amore metallaro fatto di lucchetti, nella gioventù di quella donna come in quella di Anna, che era cresciuta nel quartiere Prati, abitare a Ponte Milvio non era propriamente da quartieri alti, per usare un eufemismo.
Per educazione Anna non lo disse ma dentro di sé ne rise, ricordando certi commenti che si facevano a scuola su chi abitava in quella zona, ritenuta un posto inferiore sia a Prati che al quartiere della Vittoria da cui provenivano la maggior parte dei suoi compagni di scuola.

E che dire del "vero matrimonio", così lo aveva definito Liliana, della figlia di Caterina con il divorziato poi annullato "davanti a Dio": il marito "era una persona importante" all'interno della Casa Editrice sponsorizzata dal Partito di cui il padre aveva la tessera da una vita. Raccomandandosi da iscritto e militante il padre lo aveva "sistemato" come impiegato dentro tale Casa Editrice che, entrata in crisi economica per il blocco dei finanziamenti statali, lo aveva messo in cassa integrazione. Ma per Liliana  "era una persona importante" perché si arrabattava a tenere la contabilità residuale della piccola Casa Editrice quale cassaintegrato, e lui "sapeva fare un po' di tutto, capiva come si versano i contributi ai dipendenti".
Anna ascoltava la Povera Pazza senza commentare ma pensando che quell'uomo non era neppure laureato e nella vita tutto quello che aveva saputo fare era farsi mettere dal padre in un posto e, una volta messo in mobilità, non aveva saputo trovare altro.
Inutile fare paragoni con suo genero, Ingegnere che, lasciato volontariamente un lavoro in una Società di Informatica, ora faceva il Professore.

D'altra parte i paragoni, tutti a favore del fratello minore e di tutte le persone, le cose e i fatti a lui legati, con il maggiore e le persone, le cose e i fatti a questi legati, li aveva fatti sempre lei, Liliana,  patologicamente.
Prima di conoscere la famiglia di suo marito Anna non aveva mai fatto paragoni con nessuno.
Certo, di fronte a tanto, fu inevitabile che ai suoi occhi si rivelasse il contrario di ciò che la realtà manipolata da Liliana voleva dimostrare. Se non aveva mai pensato di quanto, all'opposto, le  persone, le cose e i fatti che riguardavano suo marito, fossero di qualità migliore e, purtroppo per Povera Pazza, superiore alle persone, le cose e i fatti che riguardavano il suo fratello minore, Anna lo aveva scoperto proprio grazie ai paragoni della folle.

Certo era anche l'esempio materno, unito ai suoi scarsi studi scolastici, ad averne fatto una donnetta meschina, a cui si era unita una vera e propria patologia.
La madre faceva paragoni fra sua figlia e gli altri supponendo invidie nei riguardi della figlia che lei vedeva bellissima, e che erano proiezioni della sua anima meschina e invidiosa.
Da questo esempio con il quale era cresciuta Liliana non aveva saputo evolversi né punto né poco.
Quando conobbe Caterina trovò nell'ascolto che quella le diede, molto divertita, lo sfogo della sua frustrazione nei riguardi della cultura del fratello maggiore e della sua adeguata compagna.
Questa poi aveva il difetto di essere molto fine e molto graziosa.

Liliana usò Caterina come contraltare ad Anna facendo paragoni tutti a favore dell'una e a sfavore dell'altra. Usare Caterina era un modo, per la sua frustrata psiche, per spostare il paragone da sé che sentiva perdente.
Caterina si prestò volentieri senza vergogna che si potesse pensare che la cosa le faceva piacere, fatto che meravigliò Anna la quale, pensando ad una situazione rovesciata, si sarebbe sentita in grande imbarazzo ad essere coinvolta nel fare disdicevole della reciproca cognata e che si potesse lontanamente pensare che la cosa potesse farle piacere, essendo per lei segno di sentimenti miseri.

Così il teatrino grottesco, Caterina compiacente e assolutamente priva di autocritica, si sviluppò per il resto della vita di Liliana, con Anna spettatrice silenziosa dapprima stupefatta poi via via malignamente divertita.
Arrivava a dire  a Caterina frasi del tipo "sei la più bella del mondo", pur essendo la donna quel che si dice "un tipo" non avendo lineamenti armoniosi.
Per contro cercava il pelo nell'uovo sull'aspetto di Anna: la derideva dicendo che era troppo magra, mentre lei, Liliana, aveva la tendenza ad ingrassare.
Non le fece mai un complimento sul suo aspetto e, se qualcuno vedeva in lei la somiglianza con questa o quell'attrice e lo diceva in sua presenza, con faccia scura diceva: "Io non ti ci vedo per niente".
Quando Anna dovette ricostruire un dente le disse che si vedeva che era diverso dagli altri, anche se il dentista aveva fatto invece un ottimo lavoro, ma tacque sulla dentatura rifatta di Caterina tutt'altro che gradevole.
Quando Anna si fece le mèches disse che non andavano più di moda, anche se lei stessa erano anni che le faceva...  
Caterina a lungo andare o era stata contagiata o per la sua natura misera ogni tanto imitava la comune cognata. Così, quando Anna si tinse i capelli di biondo e persone che non l'avevano conosciuta bruna, il suo colore naturale, apprendendo che era tinta le dicevano che credevano fosse bionda naturale tanto quel colore le era congeniale, Caterina parlando di una presentatrice bionda disse: "Non mi piace, tutto quel giallo!" Spostava, come Povera Pazza, il paragone in via indiretta, ma l'oggetto della denigrazione si capiva che era sempre lo stesso.
Anna aveva una bella voce e spesso cantava in auto ed era accaduto che, guidando  suo marito e in presenza della sorella di lui, cantasse canzoni di musica leggera. Suo marito aveva scherzato rivolto alla sorella dicendo: "Capisci perché non accendo l'autoradio?!" Orgoglioso della bella voce di sua moglie e inconsapevole, forse volutamente, del rodimento di Liliana che non disse una parola di commento.
In compenso vantò Caterina che secondo lei cantava bene. Cantava sì, ma solo in falsetto non avendo note basse...
Alla fine Caterina forse ci aveva preso gusto ad essere vantata nella sua mediocrità.
Per l'ignorante Liliana Caterina era persona colta, anche se aveva un diploma quadriennale e vagheggiando di iscriversi all'Università doveva fare un anno integrativo, cosa che non fece rinunciando.
Anna, iscritta alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, abbandonò gli studi quando i carichi familiari divennero troppo onerosi, ma mai sentì apprezzamenti sulla sua cultura ma, mentre ancora dava esami, si sentì dire da Povera Pazza: "Studiare Medicina imbruttisce, imbruttisce molto".
Anna ci pensò un po' senza capire, poi capì che la poveretta forse voleva dire abbrutire; non disse nulla né sull'ignoranza linguistica né sul fatto che studiare il corpo umano, le malattie e il dolore non è abbrutente, tutt'altro.
Anna era abituata dall'educazione familiare al risparmio e sapeva scegliere abiti graziosi senza gli sprechi continui di denaro di Liliana e anche di Caterina. Il risultato era che Anna passava per una persona elegante e riceveva complimenti in tal senso da tutti, anche da persone ignare della malevolenza delle due cognate a cui facevano i complimenti per l'eleganza della loro comune cognata senza sospettare di dare loro un dispiacere.
Le due non capivano che non è il costo degli abiti, ma il sapere scegliere quello che va bene per il proprio aspetto, gli accessori per valorizzarlo che fanno l'eleganza.
Così, non potendo che accettare il fatto dato che veniva loro detto da altri, un giorno Anna le sentì dire in sua presenza che la cugina Maria, una che spendeva anche più di loro, risultava più elegante di loro che spendevano tanto anche se "spendeva di meno".
"Ma parlate di Maria che spende patrimoni in vestiti?" Le colse in fallo Anna, molto divertita dall'ennesimo "spostamento" per non citarla direttamente.
Dato che tutti conoscevano le abitudini di quella parente le due si confusero, visto che spesso avevano commentato i costosissimi abiti di Maria. Ridendo dentro di sé Anna non disse: "Chi è dunque che risulta più elegante di voi pur spendendo meno?"
A 54 anni Caterina si precipitò a farsi togliere delle macchie sul dorso delle mani per un precoce invecchiamento della pelle.
A 70 si fece fare delle iniezioncine sulle labbra per far sparire le rughette verticali che vi erano comparse. La modifica della linea del labbro superiore non sfuggì all'occhio ormai ironico di Anna che, per una strana legge del contrappasso, contro tutte quelle cattiverie e negazioni della realtà, non aveva rughe, cosa che con meraviglia veniva rilevata da tutti.
Anna, graziata dalla legge del contrappasso che sembrava farsi beffe di quelle due signore, vide le prime macchie di pelle sulle mani a 75 anni.
Altri aspetti più che alla legge del contrappasso erano legati alla stupidità proterva delle due donne: l'una sana ma che si sopravvalutava anche grazie alle vanterie della malata, l'altra decisamente fuori dalla realtà. 
Pur spendendo molti soldi in abbigliamento, essendo incapaci di vero buongusto personale ma inseguendo la moda del momento, vestivano in modo grottesco a volte, visibile soprattutto alla distanza nel tempo quando, nel rivedere foto di eventi comuni, l'estremismo di certa moda imposta mostrava l'aspetto caricaturale.
Come le scarpe verdi serpentate con punta lunghissima, assolutamente antianatomica per il piede, che per un breve periodo la moda aveva proposto al pubblico e che lo spirito critico ed indipendente di Anna aveva immediatamente trovate orribili e ridicole, e che invece Caterina aveva indossate destando la nascosta meraviglia di Anna per l'insopportabile cattivo gusto.
Per non parlare del cappottone lungo fino ai piedi di Povera Pazza, costato chissà quanto data la moda del momento, indossato per il matrimonio del caro fratellino con Caterina e scelto di un color vinaccia, abbinato ad un altrettanto ridicolo cappellone a larga falda di identico colore. A rivedere quella mise a distanza di tempo nelle foto, risaltava l'eccessiva aderenza ad una moda imposta a chi, seguendo senza autocritica i suoi dettami, risultava quasi una caricatura.












Nonostante Povera Pazza, alias Liliana, dopo il ricovero in clinica psichiatrica avesse iniziato a manipolare di meno la realtà, Anna colse ancora, non senza ironia, alcune frasi patologiche: la figlia di Caterina avrebbe passato la Pasqua "dai suoceri".
Anna ridendo dentro di sé avrebbe voluto chiederle: "A casa di lui o a casa di lei?"
Gente che al secondo matrimonio del figlio era stata a larga distanza, ignorandosi peggio che due estranei, e la cui anomalia non era stata registrata da Liliana, ora diventava un vago "dai suoceri", a fronte della chiarissima e mai nascosta situazione dei consuoceri di Anna definita da Povera Pazza "tutto uno sfascio", i quali però si frequentavano civilmente con i rispettivi nuovi coniugi nelle circostanze necessarie riguardanti i figli o la salute di ciascuno...
In fine la malata accennò ad una presunta nobiltà dell'impiegato cassintegrato per via del cognome preceduto da un "Del". Del Monte, Del Donno, Del Torrione, Del Castiglio... Quanti nomi in Italia sono preceduti dalla particella Del, e nessuno si ritiene per questo di discendenza nobiliare. Ma tant'è... Il cassintegrato, divorziato, annullato da Sacra Rota si chiama Del Torrione! Vuoi mettere?!