Il decreto sul nuovo Statuto della Banca d’Italia riguarda una questione meramente tecnica, piuttosto complicata anche per gli addetti ai lavori. La sua conversione in legge, comunque la si voglia vedere, riforma una materia sulla quale restavano in sospeso numerose incongruenze da quasi 80 anni.
Cerchiamo di mettere un po’ ordine: anzitutto, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico, che opera le sue valutazioni di politica monetaria in maniera indipendente; possiede un capitale sociale, diviso in quote, che prima della riforma era di 156mila euro, e ora col decreto è diventato di 7.5mld. Poiché queste quote non sono scambiate liberamente sui mercati, il loro valore viene stabilito per legge. Possedere le quote vuol dire avere diritto ai dividendi che la banca distribuisce ogni anno (in misura non eccedente al 6% del capitale, cioé pari a 450 milioni, e solo a patto che la banca d’Italia non abbia perdite sulla riserva), che sono i proventi derivati dalla propria attività finanziaria (ad esempio, i rendimenti sui titoli in cui si decide di investire la riserva). Chi possiede le quote non può, in alcun modo, influenzare la politica monetaria della Banca d’Italia, così come ogni sua azione pubblica; ha diritto di voto all’assemblea dei partecipanti e può decidere, a maggioranza, su politiche di controllo societario (approvazione del bilancio, alcune nomine), e alla ripartizione dell’utile netto. L’assemblea dei partecipanti tramite quote ha in realtà un ruolo del tutto secondario: l’unica funzione pubblica rilevante sono le modificazioni dello Statuto stesso, che comunque devono essere proposte dal Governo.
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La legge prevede anche la partecipazione in quote non può essere superiore al 3%;  poiché in questo momento, per alcune banche, essa è largamente superiore, si fissa un tempo di 36 mesi per potersi disfare delle quote in eccesso, cioé di venderle sul mercato ad altri partecipanti a cui la Banca d’Italia riconosce il diritto di possederne. La Banca d’Italia stessa si fa garante dell’operazione, in quanto acquisterà le quote in eccesso per detenerle temporaneamente. E’ importante notare che, garantendo un rendimento fino al 6%, ed essendo gli utili di Banca d’Italia relativamente stabili, è praticamente la stessa cosa (se il capitale è stato ben valutato) dal punto di vista finanziario detenere la quota di partecipazione (il che garantisce i dividendi annuali) o venderla al prezzo stabilito (che garantisce un flusso immediato): quindi, l’eventuale acquisizione temporanea delle quote da parte della Banca d’Italia non comporterebbe per essa alcuna perdita né guadagno. Notiamo infine come non vi sia alcun esborso da parte dello Stato, mentre ci sono dei vantaggi per le Banche che già possiedono quote.
Prendiamo il caso di Intesa Sanpaolo, che ne possiede in numero maggiore (il 30% circa): con la rivalutazione, il valore di bilancio delle quote passa da 50mila euro circa (valore del 1936) a 2.2mld circa. Si tratta di una plusvalenza del tutto teorica, in quanto il valore di queste quote era già contabilizzato a bilancio a valori di mercato, e non certo al valore del 1936, e in quanto non viene iniettato denaro nelle casse delle Banche (men che mai, denaro dei contribuenti). Intesa sarà costretta a vendere entro 36 mesi il 25% delle quote, e questo sì sarà denaro liquido che verrà reperito sul mercato da chi vorrà acquistarle e sarà accreditato da Banca d’Italia per poterlo fare. Si aggiunga che lo Stato, nel breve periodo, ha solo da guadagnarci, in quanto tali plusvalenze vengono tassate.
Quindi, il punto focale della questione è “solo” l’importo della rivalutazione, cioé i 7.5mld. Perché non venga avvantaggiato nessuno, è importante che tale valore sia effettivamente congruo. Questa è una questione molto difficile da dirimere; un semplice calcolo con un dividendo da 50 milioni (la media degli ultimi 15 anni) ad un tasso del 3% porta a un valore teorico di 1.7mld, ma è chiaro che con questo decreto si intende aumentare i dividendi della Banca d’Italia e quindi il valore reale delle quote. Sarebbe anche pericoloso aver sottostimato il valore delle quote: in tal caso, comprarle (o possederle) potrebbe rappresentare un ottimo affare. Ci si affida, su questo, al lavoro di un comitato di esperti, e si spera che abbia operato nel migliore dei modi. Ho studiato il documento, redatto da stimatissimi colleghi ai vertici della carriera accademica, e ho pochi dubbi che sia andata diversamente. La premessa teorica del calcolo riportata, prima delle specifiche tecniche, è: “Per essere equa, la riforma non deve incidere sul valore delle quote dei partecipanti”.
Si potrebbe anche discutere sull’opportunità che la Banca d’Italia divida il proprio capitale sociale con enti privati. Ma questo punto sarebbe un po’ bizzarro, visto che è quello che è successo fino ad oggi nel silenzio generale, con quote singole che potevano arrivare fino al 30%. Alla fine della fase transitoria, nessun possessore di quote potrà superare più del 3%, rendendo molto difficili possibili ingerenze, già peraltro tassativamente vietate dallo Statuto della BdI. Quando è stato costituito il capitale sociale in precedenza (1936!), il principio era che queste quote dovevano essere possedute da istituti pubblici, e le banche a quel tempo lo erano. Poi, piano piano, sono diventate private, e proprio per questo si è deciso di sanare la situazione. La legge individua, in questo senso, un compromesso: si lascia che i privati (sub iudice della Banca d’Italia) possano partecipare, ma in misura molto piccola.
Perché si protesta, dunque, per una questione così tecnica? Perché si parla di “regalo” alle banche? Sarebbe ragionevole protestare (anche se non in queste forme) se si adducessero dubbi concreti, avvalorati da analisi approfondite da parte di esperti, sul valore stimato di 7.5 mld. Ma la ratio della legge non appare tale da far gridare allo scandalo. Si potrebbe discutere sull’opportunità di distribuire dividendi provenienti dallo sfruttamento di un bene pubblico (la moneta) a privati, ritenendo che sarebbe più opportuno che i partecipanti alle quote della banca d’Italia siano esclusivamente di natura pubblica. In tal senso si era indirizzata la legge sul risparmio del 2005, che auspicava la ri-pubblicizzazione della BdI con meccanismo di delega della durata di tre anni.  Tuttavia, ritengo comunque legittimo ciò che è stato fatto, anzitutto perché la delega è ormai scaduta, e poi perché se si voleva effettuare la rivalutazione in ogni caso si sarebbero dovute compensare le banche che già possedevano le quote, con esborso di denaro pubblico che di questi tempi è difficile. In ogni caso, può questa essere una questione degna di ostruzionismo parlamentare? La protesta radicale è un bene prezioso che non può essere sprecato, altrimenti perde rapidamente di valore.