venerdì 3 marzo 2023

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I)

 Capitolo VI

La stanza era a due letti, con una grande finestra da cui si vedeva il cielo e le cime di alberi altissimi. Segno che il reparto di Cardiochirurgia si trovava ai piani alti. Elena realizzò dunque che anche la Terapia Subintensiva si trovava in alto, dato che non era lontana da quella stanza dove l'avevano trasferita. Per tutti i giorni che era stata lì non si era resa conto di dove fosse.

La sua compagna di stanza era una donna dolce che le disse di essere in attesa da qualche giorno di essere operata e non ne poteva più di quell'attesa. Le avevano già cambiato più volte stanza e se non l'avessero operata al più presto se ne sarebbe tornata a casa.

Elena pensò che lei era stata fortunata (non c'è mai limite al margine della fortuna) giacché grazie al professore a cui era arrivato suo figlio aveva atteso solo un giorno nel Reparto di Urologia dove aveva conosciuto Maria, la donna rumena operata di cancro allo stomaco.

Pur con l'impedimento dell'assenza totale di voce di Elena, le due donne in due giorni che stettero dentro la stessa stanza si raccontarono tutto. L'una si esprimeva a gesti e fiato emesso con fatica, l'altra capiva tutto e subito. Stessa cosa che era avvenuta con Maria.

Come il dolore estremo avvicina le persone, facendo cadere le convenzioni che le separano! Sono solo esseri umani spogliati di ogni sovrastruttura. Lina era molto più giovane di Elena eppure il suo cuore aveva bisogno di riparazione come quello della donna più anziana, che iniziò a capire con umiltà quanto fosse stata fortunata ad essere arrivata fin lì senza ciò che a Lina era toccato in sorte a sessantaquattro anni. Raccontò infatti che anche lei aveva dovuto firmare per uscire dal Reparto di Cardiologia dove aveva fatto degli accertamenti, perché anche a lei era stato detto che con il cuore in quelle condizioni non si prendevano la responsabilità di dimetterla. L'intervento era inevitabile: un bypass e la valvola aortica.


La donna già operata raccontò che a lei avevano dovuto applicare tre bypass dato che le sue coronarie erano in gran parte chiuse. 

"A me basterà l'arteria mammaria per fare il bypass, mentre a lei hanno dovuto togliere la vena safena dalla gamba per fare gli altri due."  Disse con competenza professionale Lina che era Tecnico di sala operatoria. Elena annuì. Oltre ai drenaggi che le attraversavano il torace e la ferita sternale aveva infatti una lunga ferita alla gamba sinistra che, insieme al resto, faceva parte del quadro del dolore, attenuato solo in parte dagli antidolorifici che le somministravano. Aveva inoltre il catetere con annessa sacca per le urine e l'ossigeno. Quando iniziò a poter alzarsi per andare in bagno doveva portare dietro tutto l'armamentario, bombola d'ossigeno compresa. Tutto con l'aiuto di un carrellino.



Quando le tolsero il catetere poté farlo senza la sacca e, ormai attaccata all'erogatore di ossigeno fisso, bastava sfilarsi il tubicino dal naso per poi reinserirlo quando tornava a letto.

Intanto chiese soffiando quando le sarebbe tornata la voce. Gli specializzandi di Cardiochirurgia che seguivano i pazienti operati dissero al massimo un mese. La colpa fu ripetuto essere dell'anestesia. Ma suo figlio Chirurgo era terribilmente contrariato da quella conseguenza dell'intervento, ritenendola abbastanza infrequente, e capì subito la causa spiegandola a sua madre.