giovedì 14 ottobre 2021

MADRE - Cap. XII

 Capitolo XII

Non poteva disporre di soldi per poterla condurre da uno Psichiatra in privato, né poteva parlare con suo padre della sua intenzione. Per quanto egli amasse sua figlia c'erano argomenti che lo rendevano nervoso e che sicuramente avrebbero provocato un litigio fra loro.

Rita se poteva evitava. Le erano sufficienti le tensioni quotidiane che viveva nella sua famiglia, così esigua ma densa di problemi e lei era stanca giacché i problemi dei suoi genitori la tenevano in uno stato ansioso perenne. Quello di suo padre, il bere, non era riuscita a risolverlo: gliene aveva parlato, con imbarazzo estremo, quando era sobrio. Lui era evidente che se ne vergognava ma in maniera altrettanto evidente non era in grado di dominare quella sua debolezza. Aveva sostenuto quel colloquio aperto da sua figlia umiliato, senza quasi guardarla in faccia.. Riusciva a non bere solo quando lavorava, e questo era già molto. Il guaio era che usciva poi per "svagarsi un po'" con i suoi "amici", che erano in realtà dei conoscenti abituali che incontrava in una trattoria-rosticceria che aveva dei tavoli all'aperto sotto dei grandi platani. Gli piaceva la conversazione, ridere un poco, fumare bevendo vino che non reggeva.

Prese dunque appuntamento per una visita specialistica presso l'Ambulatorio dell'Ente Mutualistico dei dipendenti statali: quello a cui il lavoro di suo padre lo iscriveva di diritto con tutto il suo nucleo familiare.

Dalla loro abitazione era raggiungibile a piedi e vi condusse sua madre. Lei la seguì docilmente, anche se intuiva qualcosa perché era presa da una interna agitazione, pur restando esternamente calma. Ma Rita la conosceva e la vedeva iniziare i suoi borbottii, muovere febbrilmente le mani e la testa con gesti brevi e contenuti ma che a lei trasmettevano un'ansiosa insicurezza.

L'Ambulatorio era pulito e disadorno. Sedettero sulle sedie di metallo e formica chiara in attesa nella sala d'aspetto semivuota. Quando entrarono, chiamate dall'infermiera per la visita prenotata, nella grande stanza munita di finestra dietro la scrivania sedeva lo Psichiatra, un uomo dall'apparente età di circa 50-55 anni: anche se era seduto si indovinava la figura alta e magra, egli non indossava camice, il viso serio, le invitò ad accomodarsi. Le due donne si sedettero in due sedie di metallo e formica come quelle della sala d'aspetto. Iniziò a parlare Rita spiegando che la visita era per sua madre, ma al medico la situazione era stata subito evidente: guardava la donna e la sua agitazione calma che, quando la figlia illustrò i suoi sintomi, si alzò senza parlare e iniziò a mormorare tra sé un muto dialogo con i suoi fantasmi interiori e a girare per la stanza sempre senza moti scomposti ma chiusa in sé, apparentemente non presente, ma Rita sapeva che sarebbe bastato che lei le parlasse per richiamarla alla realtà, sempre obbediente alla parola di sua figlia. 

Lo Psichiatra notò l'ansia e l'insicurezza sul viso di quella diciottenne che sembrava una bambina e, seguendo il suo sguardo apprensivo volto verso la madre che ora era nei pressi della finestra a parlottare con sé stessa, disse: "Io non sono d'accordo con i miei colleghi che parlano di ereditarietà di quello che ha sua madre: non abbia timore. Non sono forme ereditarie. Quello che ha sua madre è suo, è un suo problema dovuto anche alla sua vita, e l'esperienza di sua madre non è la stessa della sua." Rita fu colpita da quelle parole: era stato come se quell'uomo le leggesse nella mente. Pensò poi subito che era un Medico che studiava la mente umana e dunque non c'era da stupirsi.

L'uomo disse poi che l'anomalia della situazione di sua madre era evidente dal fatto che lei, così giovane, aveva dovuto prendersi cura della mamma e condurla lì, pur essendo suo marito vivo e vegeto: quell'assenza aveva sicuramente inciso nella presente situazione di sua madre. Prescrisse poi delle medicine per Serena raccomandandosi che le prendesse e capendo che tale incombenza gravava solo sulle spalle di quella ragazzina di 18 anni.

Poi Rita fu presa dalla sua vita e Serena forse neppure prese le medicine che lo Psichiatra le aveva prescritto.

Serena diceva: "Io sono una donna come tutte le altre." Respingendo l'etichetta di malata ed era insofferente al prendere le medicine. Sua figlia ora era distratta dall'amore che era entrato nella sua vita e suo marito arreso.

Fu dopo che sua figlia si sposò che le cose peggiorarono. Non c'era più lei a fare da cuscinetto fra quelle due sofferenze e le liti erano quotidiane. La figlia le telefonava tutti i giorni, abitava lontano, e Serena rovesciava su di lei tutte le sue amare critiche sul marito. Rita faceva due telefonate al giorno per sentire le due versioni diverse dello stesso episodio quotidiano. Suo padre ancora lavorava, dunque lo chiamava in ufficio.

La voglia di libertà di Serena, la sua irrequietezza, trovavano sfogo nel prendere autobus per far visita ai suoi parenti, i quali però non le davano quel conforto che lei cercava con "uno sfogo di parole". Allora scriveva lettere alla sua sorella più anziana che era rimasta a vivere nel paesetto d'origine, avendo sposato un compaesano che faceva l'agricoltore diretto.

Costei se ne lamentò con Rita: "Mi scrive lettere con frasi anche sulla busta... Il postino le legge.. Io mi vergogno." Si lagnava con la nipote con tono di scandalizzata protesta. E quella, ferita, le rispose: "Prima di diventare mia madre era tua sorella." Ma quell'essere sorella a Serena non aveva portato nulla di buono. Fratelli e sorelle della sua numerosa famiglia, di cui lei andava orgogliosa, le avevano sempre dimostrato scarso affetto ed altrettanto scarso interesse. In questo aveva avuto la stessa sorte di suo marito che dai suoi fratelli e dall'unica sorella  aveva ricevuto solo invidia meschina, lamentele e problemi. Le due infelici creature avrebbero voluto trovare per questo rifugio e consolazione nel loro amore. Ma le reciproche fragilità  non lo avevano consentito.