venerdì 15 novembre 2019

Sisma - Romanzo Capitolo XII

Sisma
Romanzo inedito di Rita Coltellese
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SISMA

Capitolo XII
 (Il Capitolo XI è stato pubblicato il  1° novembre 2019)
Ora il ritorno sui luoghi dove erano nati i suoi genitori, per lei luoghi di estati di libertà  nella campagna, lei bambina di città, si stemperava in ricordi di quelle due persone tanto amate e per le quali tanto aveva sofferto.
Non c'era più pietà per quelle rovine che aveva visto, perché parlavano anche dell'orgoglio e dell'egoismo di chi aveva pensato di essere diventato molto più degli altri, essendosi riscattato dalla vita umile di chi l'aveva preceduto.
Suo padre, che pure era arrivato prima degli altri a certe mete, non aveva mai una parola di invidia verso chi mostrava di tirarsi un po' su. Così non era per tutti, sempre pronti a deridere, sminuire, denigrare...
"Il figlio di Italo ha comprato una casa a Prima Porta, - le parlava con meraviglia nello scoprire certe piccolezze e meschinità - e il padre era tutto contento, subito hanno detto "lì si allaga"... Ma perché togliere a quell'uomo la sua contentezza per una meta raggiunta dal figlio..? E' vero, rimane sotto il livello del Tevere, ma hanno fatto gli argini, una volta si allagava, ora non più".
"Quale dei figli?" Aveva chiesto lei, sapendo che aveva una vera nidiata quel poveruomo, fra cui uno visibilmente non suo, ma frutto di un adulterio della sciagurata moglie, cosa che naturalmente sapeva tutto il paese.
E suo padre fece il nome del primo dei figli di Italo, uno che da ragazzino Sara aveva picchiato con una cattiveria tale da rimanerle fra le mani una ciocca dei suoi capelli biondi.
Era stata una bambina cattiva a volte, prepotente ed aggressiva.
Le dispiaceva di averlo fatto: era quello uno di quei ricordi che potevano chiamarsi rimorsi. Anzi lo era. Perché quel ragazzino aveva un anno o due meno di lei e la ragione della lite era nella sua cattiveria, di Sara. Voleva cacciare il bambino dall'aia di sua nonna e lui orgogliosamente non voleva subire quell'ingiusta umiliazione e resisteva. Ne era nata una breve colluttazione in cui Sara aveva avuto la meglio e le era rimasta nel pugno una ciocca dei capelli di quel compagno di giochi estivi. Non c'era ragione alcuna in quella pretesa cattiva di Sara, ma solo la voglia di sopraffazione di chi si sente a torto o a ragione più forte verso chi ritiene più debole. 
La Sara adulta, migliorata dalla consapevolezza, si vergognava di quella bambina più vicina agli istinti che era stata. Allo stesso tempo, però, si assolveva perché ancora inconsapevole e eticamente immatura.
Il comportamento della madre del ragazzino non aveva filtri in un simile contesto: tutti sapevano, anche i bambini. E questo lo esponeva ad essere percepito come più debole degli altri, di quelli che avevano la madre a posto e il padre non debole come il povero Italo che, costretto dalla necessità della cura della nidiata e della casa, oltre che delle braccia per la campagna, si era tenuto la sciagurata moglie e il figlio adulterino.  
Una sera Sara era andata con il marito in una pizzeria dove non erano mai stati, fuori dal quartiere dove abitavano. La zona dove i pizzettai lavoravano era aperta alla vista del pubblico e lei riconobbe quello che era stato il ragazzino a cui aveva tirato i capelli: era al lavoro con la sua tenuta bianca insieme ad un collega. Lo udì dire al collega guardandola: "Quella è matta." Sara non dette segno di aver colto la frase né ne parlò a suo marito. Pensò al cattivo ricordo che aveva lasciato in colui, forse rinforzato dalle malevole dicerie della suocera del cugino di Filomena che abitava nel suo palazzo che, lo dava per sicuro, erano state da questa riportate al paesino...
Quel posto di fantasmi che si era lasciato alle spalle con il suo silenzio e le sue rovine, con le erbacce  che vi erano cresciute in mezzo, era l'emblema di riscatti orgogliosi, di ghigni soddisfatti, che non potevano dare più la soddisfazione ottenuta con tanti sacrifici, né essere il rifugio di estati del ritorno nel luogo natìo.
Al sentimento di pietà si stava piano piano sostituendo con i ricordi un sentimento di distacco e di lontananza per tutta quella comunità umana di cui aveva conosciuto tutto, pur essendone in fondo sempre rimasta estranea.
Le sue radici erano lì dove si ancoravano i suoi primi ricordi: le strade del cuore di Roma, dove uscendo dal portone sua madre la conduceva tenendola per mano. Ciò nonostante, amando i suoi genitori oltre la morte e forse ancor di più, dato che l'assenza per sempre cancella le asperità e gli urti quotidiani, lasciando solo l'amore che c'era  stato tra lei e loro, in quel paesino aveva riposto ricordi pieni di sentimenti buoni, anche se doveva riconoscere che l'invidia, la malignità stupida vi avevano dimorato abbondantemente.
Una delle stupidaggini sparse dalla aspra donna di servizio in pensione, tanto interessata alla sua persona da sparlarne a sproposito, era che lei sarebbe nata in quel paesino ma, vergognandosene, diceva di essere romana.
Questo nasceva dal complesso che certa gente campagnola aveva nei riguardi della grande città, dunque una volta urbanizzati per lavoro, per migliorare la loro condizione sociale, molti cercavano di imitare l'inflessione romana risultando buffi o ridicoli.
Così Sara, da persone che si erano bevute quest'altra menzogna, si era sentita dire con sorrisetti insinuanti cose di questo tenore: "Io del mio paese ricordo ogni cosa: un sentiero.. quel cespuglio che era là dove il sentiero si biforcava.." Di fatto avrebbero voluto che lei si sentisse in colpa per aver abiurato alla sua presunta nascita ripudiando il suo paesino. Lei ascoltava queste ed altre insinuazioni non potendo accontentare quei creduloni, così sicuri di sé da pretendere che lei inventasse una sua diversa biografia per avallare le sciocchezze dette dalla suocera di Antonio, cugino di sua zia Filomena...
Era da ridere, o almeno lo sarebbe stato, se Sara a quel tempo non fosse stata ancora giovane e non edotta del fatto che molta gente dice e si nutre di menzogne, dicerie da attaccare addosso a qualcuno per stravolgerne l'immagine, creandogliene una posticcia, più accettabile per loro se sminuita.
Lasciava dietro di sé le radici dei suoi genitori sepolte dalle pietre.
Ma le sue radici anche forse avevano subito un sisma perché tornandoci non trovava più le atmosfere dei suoi primissimi anni di vita.
"Fontan de' Trevi", come la chiamava sua madre, era a due passi da casa sua e, quando non aveva tempo di condurla a giocare al Pincio, sua madre la prendeva per mano, attraversavano Piazza S. Silvestro, Via del Tritone e, imboccando Via S. Maria in via, giungevano nello spazio fra la bellissima fontana e i sedili di pietra di fronte ad essa.
Non c'erano che loro due. Ogni tanto veniva a giocare con lei una bambina di poco più grande, con la pelle nera come quella del padre che l'accompagnava. Il padre si sedeva su una panchina leggendo il giornale, tenendo la gamba che non poteva piegare più stesa davanti a sé. Il padre di Sara le disse che era mutilato di guerra come lui, ma di "Prima categoria" data l'infermità permanente riportata. Sua madre sferruzzava o lavorava all'uncinetto su un'altra panchina.
Ogni tanto arrivavano dei ragazzini con lunghi bastoni di legno tenero, da imballaggi, sui quali in fondo avevano inchiodato dei piccoli coperchi di latta, che all'epoca chiudevano le bottiglie del latte, a mo' di palette per raccogliere le monetine che i turisti tiravano nella vasca della fontana per la tradizione... Ma quasi sempre arrivavo i Vigili Urbani, con le loro belle giacche bianche e c'era il fuggi fuggi generale...
Ora era impossibile entrare in quella piccola piazza, e lo spazio dove Sara e l'amichetta dalla pelle nera e i capelli crespi giocavano era un formicaio di esseri umani, sempre, ogni giorno, ad ogni ora... e c'era mondezza dappertutto.
Anche nella "sua" Roma c'era stato un sisma, lento, ma inesorabile tanto da sconvolgerne l'aspetto e le atmosfere.

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