domenica 22 marzo 2015

La chiave di Sara

E' un libro. Non lo conoscevo, non l'ho letto. Ieri sera, distrattamente, girando con il telecomando, sono finita su La 7 dove trasmettevano il film, tratto dal romanzo di Tatiana de Rosnay, già iniziato da un pezzo.
Dopo un po' il film ha cominciato ad attrarre la mia attenzione e, anche se mi mancavano dei pezzi, ho capito.
La storia non è vera ma può essere il paradigma di tante storie vere.
Al solito si riferisce a quello che chiamano Olocausto, ma che per me, che rifiuto questa parola perché mi sembra quasi che definendolo si giustifichi l'Orrore allo stato puro dandogli un nome, è stata una delle massime espressioni del Male, nella Storia, di cui è capace l'uomo bestia immonda che si nutre del dolore indicibile di altri esseri Umani.  
Oggi assistiamo ad una delle scuse ricorrenti, nella Storia, che l'uomo bestia si dà per sfogare questo orrido istinto sadico di sopraffazione sui suoi compagni di specie. Non me la sento di dire simili, perché se differenze razziali ci sono esistono fra chi uccide, perseguita con disumanità esseri umani e chi, da questo loro agire, trae sconvolgimento e indicibile dolore.
Oggi è la follia dei bruti dell'inventato Stato Islamico.
Il periodo a cui si riferisce il romanzo, poi film, "La chiave di Sara", è quello della follia della negazione al diritto all'esistenza degli esseri umani di cultura, religione o tradizione ebraica. 
Il Male trasmette dolore e lacrime, solo ad avvicinarsi col pensiero a quello che quelle creature hanno dovuto subire, attraverso il tempo e lo spazio, in chi è nato dopo e lo apprende.
Segno universale che, in chi ne rimane sconvolto, c'è un Uomo di altra specie, di altra razza, che nulla ha da spartire con la bestia miserabile senza umanità che frigidamente gode del dolore altrui.
Freddamente, perché impone sofferenze disumane, senza passione. Davvero ritengo siano esseri di altra specie, diversi nella mente, che è la cosa più importante di questo animale mammifero chiamato uomo.
La storia scritta da questa scrittrice francese di nascita, con ascendenze colte e internazionali, descrive l'incancellabile dolore di una bambina che cerca, con le sue innocenti e fragili forze, di salvare il suo fratellino di tre anni dalle mani dei predatori che, prelevandoli dal loro nido, la loro casa, li trascinano via verso un orrore che lei, così piccola, non può neppure immaginare, ma che nella sua sensibilità  intuisce tremendamente pericoloso. Lo chiude in un armadio e ne serba la chiave pensando di tornare poi a liberarlo.
Così non sarà. I predatori francesi, vilmente piegati agli occupanti nazisti, trascineranno lei e la sua famiglia nel Velodromo di Inverno e, lì radunati con altre famiglie ebree inermi, e questa è realtà storica, li trarranno poi nei campi di sterminio, smembrandoli dagli affetti e nella carne. I suoi genitori moriranno e lei sarà fatta fuggire da qualche essere non imbestialito del tutto.
Verrà adottata ed il suo cognome cambiato. La famiglia che la accoglie l'amerà. Ma lei se ne andrà, una volta adulta, con dentro tutto il suo dolore. Proverà a vivere nell'amore di un uomo, ma neppure il suo bambino che le è nato la farà rinascere dal dolore che si porta dentro: la consapevolezza che il suo fratellino è morto chiuso nell'armadio della salvezza che lei voleva dargli. Né la salverà il pensiero che quella morte, che lei inconsapevolmente gli ha dato, pur orribile, lo ha preservato da ben altri orrori e dolore.
Lei, per ventura, si è salvata, e questo è il senso di colpa che la ucciderà: fingerà un incidente gettandosi con l'auto contro un camion. 
Triste. Come triste, nel reale, è stato per me il suicidio di Primo Levi. Non è riuscito a liberarsi dal dolore neppure scrivendo.
L'ho già scritto tante volte: non essere ebrea non vuol dire non sentire tutto il dolore subito da chi ha dovuto vivere tutto questo. E' un sentimento che mi accompagna da quando scoprii cosa era accaduto prima che io nascessi. Avevo 14 anni e fino a quel momento pensavo di essere nata in un tempo di civiltà e che la barbarie appartenesse ad un passato di ignoranza... Invece tutto era accaduto nella Germania di musicisti, scienziati, letterati... poco prima che io nascessi.
Per questo capisco profondamente il sentimento che guida la protagonista di questo racconto, che rimane sconvolta nello scoprire che i nonni di suo marito hanno vissuto tranquillamente nell'appartamento in cui era morto, chiuso nell'armadio dall'amore protettivo della sorellina Sara, il piccolo ebreo privato della sua famiglia. 
Per la protagonista è una compromissione morale quella della famiglia di suo marito con il delitto commesso dai collaborazionisti francesi. 
Quanti hanno tratto profitto dalle case svuotate con la violenza dei loro occupanti ebrei? I nonni del marito della protagonista sono fra questi. L'indifferenza morale, l'anestesia etica, sono forse meno orribili? Chi trae profitto dal male altrui è contaminato di immoralità. Lei, Julia, sente il dovere morale di cercare la vita di Sara, di ritrovarne le fila, come un riscatto, essendo la moglie del discendente di coloro che si sono impossessati di quel nido di dolore.  
Julia rappresenta il mio sentimento di non indifferenza, il sentimento di responsabilità verso chi ha subito un'enorme ingiustizia. Un sentimento che a chi pensa solo agli affari propri può sembrare stravagante, come appare tale al marito di Julia, ma che mi appartiene e, credo, appartenga anche alla scrittrice che ha creato questa storia, immaginaria, ma ben inserita in un contesto storico reale. 

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