lunedì 19 marzo 2012

Lavoro in Italia: storia n. 2

1998 - Italia

Una giovane donna si laurea in Economia e Commercio in una Università Italiana. Tramite un annuncio trova un lavoro con un contratto di Collaborazione Coordinata e Continuata in una piccola Società che si occupa di Certificazioni ISO 2000. Alle h. 8:00 deve essere in ufficio e, dopo un breve intervallo di un'ora circa per il pranzo, deve rimettersi al lavoro con altre impiegate nel medesimo ufficio fino alle h. 18:00. I contributi sono in quegli anni a bassissima percentuale per quel tipo di contratti, la forma del lavoro però non rispetta il contratto Co.Co.Co. in quanto esso non prevede un rigido orario d'ufficio ed una presenza costante presso la struttura datrice di lavoro, potendo, il Collaboratore, svolgere il lavoro anche presso la propria dimora od altrove.
Una delle impiegate  Co.Co.Co. se ne va per contrasti con il titolare della Società e, probabilmente, denuncia l'improprio sfruttamento delle impiegate  Co.Co.Co. all'INPS.
Arrivano gli Ispettori INPS e constatano che si configura un vero e proprio rapporto di lavoro dipendente fra il titolare e le Co.Co.Co.  presenti in ufficio anche più di otto ore giornaliere. Il titolare viene dunque denunciato per evasione dei contributi previdenziali dovuti per il rapporto di lavoro dipendente e gli viene imposto il versamento di un anno di contributi per la Dottoressa in Economia.
La Dottoressa trova un lavoro presso una Ditta con un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tutto bene finché la segretaria del titolare non litiga con lui e si licenzia. Tra la Dottoressa e questa signorina c'è anche un rapporto di amicizia personale che continua anche dopo il suo licenziamento. Il titolare lo scopre e le chiede di troncare tale amicizia. La Dottoressa ritiene di non dover rendere conto al titolare della Ditta della sua vita privata e continua il suo rapporto. Un'altra impiegata, per trarre qualche vantaggio, riferisce al titolare che la Dottoressa si sente ancora con l'ex-impiegata e questi inizia delle azioni di delegittimazione della Dottoressa nel lavoro costringendola a licenziarsi. 
Altro lavoro in una Società Interinale: sostituisce per sei mesi una impiegata comunale in maternità. Finita la sostituzione torna a cercare lavoro. Lo trova presso una Società che dipende da un colosso telefonico. Dopo qualche anno la sede della sua città chiude e c'è il trasferimento ad una città a Km. 700 da dove la Dottoressa ha la casa ed un marito che non può trasferirsi in quanto il suo lavoro è legato strettamente alla città dove vivono. Inoltre sembra che, anche accettando il trasferimento e le spese per un affitto di una casa in più rispetto a quella coniugale, rimane sempre il rischio di chiusura definitiva anche nella nuova sede e messa in mobilità senza cassa integrazione. Un sindacalista consultato spiega che sono solo 600 dipendenti e per questo numero non è prevista la cassa integrazione, anche perché hanno offerto il trasferimento ad altra sede.
Nuova ricerca di lavoro. Lo trova in una grossa multinazionale. Fa una discreta carriera arrivando ad essere un quadro. Sacrifica ore di lavoro oltre l'orario dovuto che non vengono pagate perché per il quadro il lavoro straordinario non è previsto. Ha un bambino. Prende solo i 5 mesi di legge e torna subito al lavoro. Se il bimbo sta male e non può andare al nido ci pensano i nonni e quando ha qualcosa di più grave per tenersi buona la Società prende i giorni di ferie, rinunciando a quelli che le spettano per malattia del bambino fino a tre anni.
Questo sacrificio non la salverà da un pesantissimo mobbing centrato sul demansionamento attuato dalla sua diretta superiore. Probabilmente per suoi limiti di fragilità caratteriale preferisce dare le dimissioni piuttosto che denunciare il mobbing, non essendo riuscita a difendersi e non avendo ricevuto spiegazioni, più volte richieste, sul suo demansionamento, che le veniva negato a parole pur essendo nei visibili fatti.
Un nuovo lavoro, sempre nel suo campo di esperienza che, allo scadere dei 6 mesi di prova, non viene rinnovato; motivo addotto: non è che non va bene, ma hanno cancellato quella figura professionale per risparmiare. La Società è una multinazionale e un avvocato, consultato, dice che non poteva farlo. Ottiene un risarcimento modesto ma non ha lavoro. Prende il sussidio di disoccupazione. Fa molti colloqui di lavoro ma non viene assunta da nessuno. Ha 42 anni e poco più di 10 anni di versamenti pensionistici.
Morale: anche con l'Art. 18 si può essere totalmente indifesi.
Figuriamoci senza!!!

3 commenti:

Silvia O. ha detto...

Se questa signora fosse una parente di un qualsiasi politico non avrebbe alcun problema a reinserirsi nel mondo del lavoro!
Conosco alcune donne sulla quarantina che non hanno mai avuto un contratto a tempo indeterminato. Alternano periodi di occupazione ad altrettanti periodi di disoccupazione. Per fortuna hanno i genitori che le aiutano, diversamente sarebbero letteralmente alla fame.
Nella mia città due aziende hanno chiuso i battenti e i dipendenti , con contratto a tempo indeterminato ,hanno perso il lavoro. Padri e madri di famiglia che sono angosciati e disperati perché non ci sono possibilità di ricollocazione.
Mi viene in mente la famosa frase: “ il lavoro fisso è una noia, è bello cambiare ed accettare le sfide”….
Quanta gente vorrebbe annoiarsi con un lavoro stabile e dignitoso, oppure cambiare per migliorare la propria posizione oppure accettare la sfida di svolgere un lavoro mai fatto prima per sentirsi professionalmente realizzati ed appagati…
Quella frase che ho citato tra virgolette, avrebbe un senso se ci fossero sul mercato molte opportunità di lavoro, invece, con la tragica realtà di crisi dell’occupazione , quella frase la reputo penosa e fuori luogo, quasi fosse un insulto nei confronti di chi è alla disperata ricerca di un posto di lavoro per sopravvivere. Passati gli “anta”, purtroppo, l’età diventa un pessimo biglietto da visita! Il problema della disoccupazione sconvolge ed angoscia i diretti interessati e coinvolge, ahimè, tutto il nucleo familiare. E’ dura!

Rita Coltellese ha detto...

Purtroppo questa è la realtà ovunque oggi in Italia.
C'è stato un tempo felice che riempiva i quotidiani di annunci di lavoro: il 1965.
Il "Messaggero" di Roma ne era pieno.
Trovai così il mio primo impiego in uno Studio Legale di Avvocati Associati. Bastava telefonare, prendere un appuntamento e presentarsi. Un colloquio, una selezione con altre 50 candidate ed il posto fu mio. Un lavoro provvisorio, tanto per togliermi l'etichetta di "primo impiego" e poter accedere a tutti gli altri annunci che dicevano "escluso primo impiego". Ad altri annunci bisognava scrivere. Mi ero diplomata in luglio, a settembre già lavoravo e ad ottobre arrivò la lettera della Johnson Johnson sede di Milano per l'assunzione a tempo indeterminato per il ruolo di Perito d'Azienda e Corrispondente in lingue estere. Si trovava lavoro così: con il giornale e senza raccomandazione di nessuno. Per i concorsi pubblici, invece, si parlava di raccomandazione già allora, già c'era questa mafia che blindava gli accessi a chi poteva affidarsi solo alla propria preparazione. Oggi serve la raccomandazione anche per fare la cassiera di supermercato.

Silvia O. ha detto...

E’ vero, ai nostri tempi era più facile trovare lavoro. Non esisteva la disoccupazione forzata e cronica. C’erano più opportunità di lavoro? Non penso proprio. C’era un equilibrio ottimale tra domanda e offerta di lavoro manuale e lavoro cosiddetto intellettuale. La scolarizzazione non era ai livelli di oggi. Nolte persone, dopo la licenza media, si inserivano nel mondo del lavoro e svolgevano mestieri manuali: L’imbianchino, il tappezziere, l’elettricista, la commessa, la sarta, la maglierista, il falegname,ecc.
Una selezione “fisiologica” dei lavoratori veniva fatta dopo la terza media. L’accesso alle Superiori e all’Università non era un fenomeno di massa ed è per questo che al termine degli studi era prassi normale riuscire ad inserirsi nel mondo del lavoro. Oggi (e anche ieri) manca la forza lavoro manuale, in parte perché i mestieri antichi si sono estinti, superati dalle nuove tecnologie, ma soprattutto perché è aumentata la scolarizzazione. L’equilibrio tra la forza lavoro manuale e quella intellettuale si è spezzato. E’ aumentata la domanda per svolgere il lavoro intellettuale ed è diminuita la domanda per il lavoro manuale. Il mercato del lavoro non è in grado di soddisfare le esigenze dei potenziali lavoratori , non può essere assorbita l’eccedenza di risorse umane e una parte di queste resta fuori. Con la delocalizzazione all’estero dei sistemi produttivi, il mercato del lavoro crolla sempre di più. Ma questo è un altro discorso …
Dovrebbe essere una priorità studiare questo problema, analizzare gli effetti che procura sulla pelle della gente, cercare di trovare delle soluzioni in ambito istituzionale. Non mi risulta che un qualsiasi esponente politico abbia dimostrato una particolare sensibilità sulla delocalizzazione imprenditoriale.